#Blog EllePì – Dignità del lavoro tra Quiet Quitting e Great Resignation

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Che legame esiste tra Quiet Quitting, Great Resignation e dignità del lavoro?

Il concetto di “dignità” è molto ampio e si lega a concetti altrettanto ampi, come ad esempio l’insieme dei diritti fondamentali dell’essere umano. All’interno dei contesti lavorativi, luoghi nei quali le persone dovrebbero avere la possibilità di accrescere la propria dignità personale, è forse utile distinguere una dignità nel lavoro ed una dignità al lavoro.

Ciascuno di noi deriva dignità dalle attività specifiche che svolge, dalle mansioni assegnate e dalla posizione che ricopre e, in questo senso, il lavoro inteso come insieme delle attività svolte dovrebbe offrire autonomia – dove possibile anche decisionale – e opportunità di apprendere in modo continuativo lungo tutto corso della vita. Dall’altra parte, la dignità si genera anche grazie al contesto più ampio in cui il lavoro è calato, che dovrebbe offrire opportunità di affermazione personale, di espressione delle proprie idee e dei propri punti di vista. Un lavoro dignitoso, oltre che dare sicurezza e la possibilità di una vita autonoma dal punto di vista finanziario, dovrebbe permettere di instaurare relazioni appaganti con gli altri e, perché no, anche di far sentire le persone ascoltate. La dignità, quindi, è strettamente correlata a contesti che siano in grado di aiutare le persone a fiorire.

Tuttavia il lavoro può anche rivelarsi estremamente frustrante e negare la dignità della persona in molti modi, spesso sottili, che non arrivano a violare i diritti fondamentali dell’essere umano, ma possono essere profondamente dannosi. Ci sono molti esempi di “mismanagement” e cattiva gestione delle persone, così come di abusi e micro aggressioni, o ancora, esempi di situazioni di sovraccarico lavorativo oppure di estrema limitazione dell’autonomia. A fronte di questi rischi e dopo una pandemia, le persone stanno maturando una maggiore consapevolezza e si interrogano sul senso che danno al lavoro che svolgono, sulle conseguenze di appartenere a contesti che non consentono di esprimere la loro persona e il fiorire individuale. Ci si interroga sempre di più sull’allineamento tra quello che vogliono, che desiderano, e quello che possono restituire in rapporto al purpose aziendale. Il nesso tra queste due dimensioni è proprio quello che ci conduce a fenomeni come il Quiet Quitting e la Great Resignation.  

Ma facciamo un passo indietro: cosa sono questi due fenomeni? Da un lato la Great Resignation identifica il fenomeno delle dimissioni in massa che hanno caratterizzato il post pandemia e dall’altro, quasi come l’altra faccia della medaglia, il Quiet Quitting: un allontanamento, almeno psicologico, delle persone dal loro lavoro. Quest’ultimo si verifica quando le persone non hanno la possibilità, per vari motivi, di lasciare il proprio posto di lavoro e quindi si ritraggono e si limitano a svolgere i compiti assegnati, quanto pattuito, non lavorando oltre le aspettative né tantomeno oltre l’orario di lavoro. Con il network di ricerca 5C (www.5C.careers) abbiamo condotto uno studio a cavallo del 2020-2021 che ha coinvolto 26 paesi, il Barometro 2020 sulle carriere. Lo scopo era quello di analizzare le carriere a tutto tondo e ci siamo concentrati soprattutto su persone che avevano posizioni di lavoro manageriali o professionali. Il risultato principale che ricaviamo dall’analisi dei dati è che forse, più che di Great Resignation, possiamo parlare di Great Reconsideration, una riconsiderazione soprattutto della propria mappa valoriale.

Prima di tutto abbiamo chiesto alle persone le loro intenzioni rispetto alla carriera: lasciare la propria organizzazione, lasciarla per un’altra nello stesso contesto o cambiare completamente rotta. Siamo andati a vedere se la decisione di cambiamento poteva essere correlata ad un mutamento dei valori attribuiti alla carriera e, a ritroso, se questi cambiamenti dei valori attribuiti alla carriera fossero dovuti ad una serie di variazioni contestuali, anche legate anche alla pandemia. Qual è stato il riscontro? Le persone hanno riportato di attribuire maggiore importanza ad una serie di aspetti relativi alla propria carriera rispetto al passato, e questa variazione è stata parecchio influenzata da un aumento delle responsabilità di cura che si sono verificate dopo il primo lockdown e da un’impennata di burnout: una sindrome di malessere psicofisico, un esaurimento energetico legato all’eccessivo lavoro e alle eccessive responsabilità. Non abbiamo, invece, trovato riscontro su alcuni elementi che ritenevamo più deterministici: ad esempio, da un lato non ha avuto influenza sulla riconsiderazione della carriera il fatto che il datore di lavoro avesse o meno risposto in modo tempestivo ed efficace all’emergenza COVID-19 e non ha avuto una influenza nemmeno l’aumento del lavoro da remoto.

Cosa è cambiato? Che cosa le persone reputano importante nella loro carriera?

Per analizzare in dettaglio cosa le persone considerassero importante nella loro carriera, abbiamo utilizzato il modello messo a punto dai ricercatori del network 5C che prevede sette valori che incarnano aspetti della vita lavorativa di tutti, ma che ciascuno di noi può valorizzare in modo diverso: apprendimento e sviluppo, imprenditorialità, successo finanziario, sicurezza economica, relazioni di lavoro positive, impatto positivo, equilibrio vita-lavoro. Dopo la pandemia tutti hanno testimoniato di dare maggiore importanza ad ognuno di questi valori e questo ci fa pensare che l’emergenza sanitaria abbia dato avvio ad un lavoro maggiore di introspezione, ma la variazione ha toni diversi da paese a paese ed è influenzata da fattori di natura culturale ed economica.

Due aspetti su cui si è tanto discusso nel post-pandemia sono l’equilibrio tra vita privata e lavoro e l’avere un impatto positivo sul mondo. I nostri dati ci mostrano che, in Italia, il valore attribuito all’equilibrio tra vita privata e lavoro è cresciuto soprattutto tra i lavoratori più maturi, mentre l’avere un impatto positivo sul mondo è diventato più importante tra le nuove generazioni – che tramite il proprio lavoro vogliono avere uno scopo nella vita, un impatto positivo sul mondo, sulla società e sulle relazioni.

Per quanto riguarda il Quiet Quitting, un sondaggio di Gallup del 2022 riporta che le persone non vogliono banalmente lavorare meno, ma vogliono lavorare meglio; ricollegandoci ai dati del Barometro 2020 sulle carriere del 5C, possiamo affermare che desiderano lavorare con maggiore significato ed equilibrio. Inoltre, vogliono dare un taglio alla norma precedente caratterizzata dal super lavoro e della sua intensificazione.

Questo è supportato da uno studio da me condotto precedentemente alla pandemia, in collaborazione con la Prof.ssa Mariella Miraglia (Università di Liverpool) e con il Prof. Gregor Bouville (Università di Lione) in cui ci siamo avvalsi di dati nazionali francesi sulle condizioni di lavoro. Le nostre analisi ci dicono che alcune pratiche di gestione dei lavoratori portano ad una intensificazione del lavoro stesso. Sono pratiche manageriali classiche che si prestano spesso e purtroppo ad una distorsione. È un’ottima pratica quella di dare obiettivi chiari e trasparenti, o definire le aspettative sin dall’inizio, ma a volte gli obiettivi diventano troppo difficili e irraggiungibili. Così come il monitoraggio delle attività e i feedback in corso d’opera consentono alla persona di riposizionarsi, ma spesso il monitoraggio delle attività è così stretto che porta ad una intensificazione del lavoro e ad un conseguente malessere.

Un malessere che si manifesta in vari modi e che possiamo analizzare attraverso due indicatori: i giorni di assenze per malattia, ma soprattutto i giorni in cui si va lavoro seppur malati. Il cosiddetto fenomeno del presentismo, cioè dell’andare al lavoro anche quando si è in condizioni psicofisiche non ottimali, è un problema per le persone stesse e per l’azienda poiché le persone malate recuperano più lentamente con una conseguente diminuzione della produttività.

Infine, dobbiamo essere consapevoli che è in atto un cambiamento culturale e anche i termini che usiamo svelano una resistenza latente a questo cambiamento. L’espressione “Quiet Quitting” tradisce appunto tale resistenza, ed appare un tentativo di riaffermare la precedente cultura manageriale del super lavoro, secondo la quale la decisione delle persone di attenersi a quello che è già stato pattuito nei contesti di lavoro significa automaticamente “allontanarsi”, ritrarsi psicologicamente dal lavoro. Questo rivela quasi uno stigma nei loro confronti, come se fare “solo” quanto stabilito non fosse sufficiente.


Silvia Dello Russo è Professoressa Associata di Comportamento Organizzativo e Gestione delle Risorse Umane presso l’Università Luiss Guido Carli. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Psicologia delle Organizzazioni presso l’Università La Sapienza di Roma. I suoi interessi di ricerca includono pratiche HRM per lo sviluppo individuale (pratiche di gestione della carriera, coaching ed un focus principale sulla gestione delle prestazioni ed il feedback); la motivazione al lavoro lungo l’arco della vita e l’interazione tra l’individuo e il suo contesto organizzativo (strutturale, fisico, del compito e, soprattutto, il contesto sociale). Queste tre direttrici principali si intrecciano spesso tra loro.

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