#Blog EllePì – Il riposo non è una pausa dal lavoro…

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La società occidentale in cui siamo immersi sta divenendo, giorno dopo giorno, sempre più illeggibile e difficilmente interpretabile. La contemporaneità corre ad una velocità tale che non si concilia affatto con un pensiero alto, con una riflessione meditata. Buona parte delle donne e degli uomini del nostro tempo si sentono confusi, se non spaesati, nostalgici di quel tempo solido[1] di qualche decennio addietro.

Un tentativo di lettura di questo tempo complicato e complesso è quello di Byung-Chul Han, filosofo ed antropologo, in un suo saggio La scomparsa dei ritiEgli sostiene che si sta assistendo ad una potente e celere erosione della realtà rituale, in particolare nelle culture occidentali. Una ritualità non solo attinente alla sfera religiosa, ma che tocca e pervade anche altri ambiti, ad esempio quello artistico. Ciò che causerebbe la scomparsa dei riti è una spinta emancipativa dei soggetti rispetto ai sistemi culturali tradizionali di riferimento; la cultura post–moderna offre dei modelli di evasione, delle forme di emancipazione rispetto al mondo ‘solido’ inteso come coercitivo e claustrofobico.

L’inghippo nasce nel momento in cui questo processo, invece che sfociare in una liberazione, è vittima di se stesso e trascina con sé tutti quei singoli che si sentono sempre più soli o rimandati a se stessi. La scomparsa dei riti, così, invece che essere festeggiata come una libertà liberata, viene ad essere una malattia tipicamente contemporanea. Han asserisce che ogni persona ha bisogno di un riconoscimento di sé all’interno di una comunità, egli afferma ciò partendo dal concetto hegeliano di ‘accasamento’ (einhausung). La simbologia rituale ci aiuterebbe, quindi, a riconoscerci in una comunità e a vivere senza sentirci troppo in balia del caos contemporaneo.

Ma ciò che interessa a noi, più nel dettaglio, è la riflessione che il filosofo coreano compie sulla relazione, o dialettica, tra lavoro e riposo, contenuta all’interno del capitolo Festa e religione. Egli, dopo aver introdotto il tema del ‘riposo’ all’interno del contesto ebraico, inteso come “festa di riposo e contemplazione”, asserisce con forza: oggi abbiamo del tutto smarrito il riposo festivo, caratterizzato dalla simultaneità di intensità vitale e contemplazione. È proprio nel momento in cui la vita activa, che nella sua crisi tardo–moderna degenera in iperattività, assorbe in sé la vita contemplativa che la vita raggiunge una reale intensità.

A questa affermazione, ne affianca un’altra quasi lapidaria per la quale “il riposo e il lavoro rappresentano due forme esistenziali del tutto avulse l’una dall’altra”. Tra le due vi è netta differenza ontologica, se non teologica. Siamo in un altro contesto, il riposo non è né ‘ripresa’ dal lavoro precedente né ‘raccoglimento’ in attesa di quello successivo, non è – per dirla in altri termini – una pausa. Se si vive il riposo come ‘pausa’, esso perde il suo valore ontologico, divenendo un prodotto del lavoro stesso. Quale è dunque la risultante di questo lavoro che tutto comprende: “l’odierna coazione a produrre perpetua il lavoro e conduce alla scomparsa di quel sacro riposo. La vita viene del tutto profanata e dissacrata”.

Il filosofo, affermato ciò, si dedica ad una descrizione di ciò che invece è o almeno dovrebbe essere il tempo della festa: “La festa, come forma di gioco, è un’auto rappresentazione della vita. Ha un carattere traboccante che non ha obbiettivi. In questo consiste la sua intensità. […] Il tempo festivo è un tempo che sta in piedi. Non sfiorisce, non si disperde, quindi rende possibile l’indugio”. Dall’altro lato, invece, il lavoro – più volte avvicinato alla coazione a produrre – è un tempo che si disperde e sfiorisce; la vita stessa rischia di diventare fuggevole se il tempo della stessa va a coincidere con quello del lavoro.

Un’ulteriore conseguenza di questo ‘totale profanazione della vita’ è che il medesimo riposo viene sequestrato dalla produzione e diviene ‘tempo libero’. Il quale – fortemente differente dal riposo inteso come festa – per alcuni può divenire un’esperienza angosciante, perché ai confini di questo ‘tempo libero’ vi è la pressione sempre più crescente della prestazione. La prestazione diventerebbe, quindi, la nemica del riposo e lo stesso Han, alla luce di ciò, propone una differenziazione semantica tra essa e il lavoro[2]: “Il lavoro ha un inizio e una fine, per cui al periodo del lavoro segue il periodo del riposo. La prestazione, invece, non ha né inizio né fine: non esiste un periodo della prestazione”.

Al termine dell’articolo Han lancia una proposta esortativa, la quale tenta di coinvolgere tutti anche il mondo politico: “Alla luce della crescente coazione a produrre e a performare, fare un uso diverso, giocoso, della vita diventa un compito politico. La vita riguadagna il proprio lato ludico quando, invece di riferirsi a uno scopo esterno, si riferisce solo a se stessa. Bisogna riconquistare il riposo contemplativo. Se si sottrae del tutto alla vita il suo elemento di quiete, si soffoca nel proprio agire”. Han chiude così il suo capitolo sulla Festa e religione, ma mentre ci chiarisce le idee sulla differenza tra riposo sacro e festoso e il ‘tempo libero’, ci rimanda indietro una domanda: che tipo di lavoro viviamo? Un lavoro che sa auto-limitarsi concedendosi respiro oppure un imperativo performante che non conosce requie?


Bibliografia: 
Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, trad. it. di G. Bonola, Marietti, Genova 1998.
Byung-Chul Han, La società della stanchezza, trad.it di F. Buongiorno, Nottetempo, 2012.

Mary Douglas, Antropologia e simbolismo, Il Mulino, Bologna 1985.


Paride Petrocchi, missionario per vocazione, filosofo per formazione, insegnante precario per professione, scrittore per passione. Laureato in Filosofia e Scienze Filosofiche all’Università di Macerata, studente in Scienze Religiose all’Università di Urbino. Membro della fraternità redazionale di Le Grain de Blé e dell’equipe di Pastorale giovanile della Diocesi di Ascoli Piceno.


[1]Uso il termine ‘solido’ come corrispettivo opposto all’idea di ‘società liquida’ di Bauman.
[2]A ben vedere, Han non sempre è così attento a differenziare il contenuto preciso del termine lavoro. 

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