#Blog EllePì – NEET, oltre gli stereotipi

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Li chiamano NEET, acronimo di Not in Education, Employment or Training, giovani che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione. La definizione nasce nel 1999 in Inghilterra, ma il neologismo è stato introdotto ufficialmente nel 2002 dai sociologi Bynner J. & Parson S. in un articolo dal titolo “Social exclusion and the transition from school to work: the case of young people not in education, employment of training”. Rientrano nella categoria le ragazze e i ragazzi tra i 15 e i 29 anni e l’Italia è al primo posto tra i Paesi europei per la loro presenza in base a quanto emerge dal rapporto BES 2021 ‘Il benessere equo e sostenibile in Italia diffuso dall’Istat, pubblicato ad aprile di quest’anno.

Secondo questo documento, anche a causa delle conseguenze della pandemia (non ultima la didattica a distanza), “nel 2021, in Italia, il percorso formativo si è interrotto molto presto per il 12,7% dei giovani tra 18 e 24 anni, in calo rispetto all’anno precedente (14,2%). Lasciano la scuola più ragazzi (14,8%) che ragazze (10,5%), e la diminuzione di early leavers rispetto al 2020 è più accentuata tra i ragazzi, tra i quali la quota scende di 2 punti percentuali”. L’uscita dal sistema di istruzione e formazione è un fenomeno che riguarda più frequentemente dei sottogruppi di ragazzi che, provenendo da contesti socio-economici più difficili, non riescono ad affrontare i problemi oggettivi riscontrati nell’apprendimento. La quota di coloro che hanno abbandonato precocemente gli studi è più elevata nel Mezzogiorno: sono il 19,5% nelle Isole (stabile rispetto al 19,9% del 2020) e il 15,3% nel Sud (in calo rispetto al 17,5% del 2020). In Sicilia, Puglia, Calabria e Campania la quota è particolarmente alta tra i maschi, tra i quali supera il 18% (rispettivamente 24,8%, 19,6%, 18,6% e 18,4%).

Secondo quanto rivelato dall’Istat nel report “Livelli di istruzione e ritorni occupazionali”, diffuso a ottobre 2022, tra i NEET disoccupati in Italia, uno su due è alla ricerca di lavoro da almeno un anno (il 51,6%, una quota più alta di quella del 2020, 44,9%). Nel 2021, con la ripresa del mercato del lavoro diminuiscono i NEET disoccupati e quelli appartenenti alle forze di lavoro potenziali: aumenta dunque tra i NEET la quota degli inattivi che non cercano un impiego e non sarebbero disponibili a lavorare (35,9%, +2,7 punti), più frequentemente di genere femminile, con responsabilità familiari di cura e assistenza a bambini o adulti non autosufficienti. Anche sulla maggiore inattività dei NEET stranieri rispetto agli italiani incide la componente femminile. Per quanto riguarda la transizione scuola-lavoro, l’Istat evidenzia poi come Italia sia ancora lontana dall’Ue: nel 2021, in Italia, il tasso di occupazione dei giovani in transizione dalla scuola al lavoro è stimato al 49,9% tra i diplomati e al 67,5% tra i laureati, valori inferiori a quelli medi Ue di 23,2 punti e di 17,4 punti rispettivamente. Resta ampio anche il divario con l’Europa nella formazione continua dei disoccupati, mentre aumenta la partecipazione degli adulti a corsi e attività formative.

Al di là della fotografia che restituiscono i numeri, la realtà dei NEET suggerisce diversi punti di analisi, sia dal punto di vista sociale, sia da quello culturale. Gli economisti e i sociologi esaminano spesso il fenomeno in chiave critica verso i giovani, spesso accusati di essere troppo viziati, poco inclini al sacrificio e per nulla intraprendenti. Ma cosa ne pensano i diretti interessati? Sul sito scuola.net scrivono: “prima ancora di pensare agli interventi diretti sui giovani, occorre creare un ambiente all’interno del quale gli individui abbiano voglia di studiare, di fare il proprio ingresso nel mondo del lavoro e di vivere appieno la propria esistenza. Non riuscire a lavorare, non percepire un adeguato reddito non fa che impoverire le relazioni sociali, tende a far sviluppare comportamenti sbagliati e devianti e non è raro che insorgano problemi di salute mentale e fisica. I NEET partecipano meno attivamente alla vita politica, culturale e sociale ed è quindi arrivato il momento di invertire la rotta, rilanciando la scuola pubblica e investendo di più e meglio su di essa”.

Bisognerebbe, quindi, trovare un compromesso tra generazioni, un modo per far sentire i giovani meno “comodi”, ma allo stesso tempo riconoscerne il valore e la dignità, dando loro possibilità adeguate alla loro formazione e alle loro inclinazioni. I giovani chiedono una scuola più moderna, che risponda maggiormente alle esigenze di un mondo che negli ultimi anni è cambiato molto, anche per via della rivoluzione digitale. La formazione deve camminare di pare passi, se non precedere, le innovazioni che vive la società. L’imposizione della didattica a distanza durante il picco pandemico ha mostrato quanto la scuola italiana sia ancora indietro in materia di digitalizzazione e quanto sia ampio il divario tra ceti sociali. Famiglie meno abbienti spesso offrono meno opportunità ai propri figli, proprio perché le loro risorse sono limitate, pur garantendo magari un livello di educazione molto alto. L’espressione chiave deve essere “pari opportunità”, intesa non solo con l’impegno a garantire le stesse possibilità a persone di sesso diverso, ma anche a giovani con possibilità economiche diverse. Secondo i dati dell’Ocse in Italia servono almeno cinque generazioni per salire la cosiddetta scala sociale. Bisogna tenere conto anche di questi elementi quando si parla di giovani, abbandonando atteggiamenti giudicanti e poco empatici. È altresì importante assumersi la responsabilità di scelte politiche ed economiche che di fatto non hanno considerato le priorità delle giovani generazioni, fino quasi a dimenticarsene. Si assiste, invece, a una ridicolizzazione dei giovani che lottano per la tutela dell’ambiente e si battono per i diritti umani di tutti. Per capire davvero i giovani è fondamentale ascoltarli, guardarli da vicino, provare a osservare il mondo dalla loro prospettiva, ricordando, come diceva Robert Baden-Powell, che “noi non abbiamo ereditato il mondo dai nostri padri, ma lo abbiamo avuto in prestito dai nostri figli e a loro dobbiamo restituirlo migliore di come lo abbiamo trovato”.


Asmae Dachan è giornalista professionista e scrittrice italo-siriana, è esperta di Medio Oriente, Siria, Islam, dialogo interreligioso, immigrazione e terrorismo internazionale, iscritta all’Ordine dei Giornalisti delle Marche dal 2010 lavora come freelance per diverse testate nazionali e internazionali. Responsabile Ufficio Stampa Fondazione Lavoroperlapersona.. Attivista per la pace e la non violenza, è stata nominata nel 2013 Ambasciatrice di Pace a vita  dell’Università per la Pace della Svizzera. Il 2 giugno 2019 è stata insignita del titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

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