Reportage EllePì – Quel che resta del lavoro – capitolo 2 – “Il funerale”


Islam Miah

Si chiama Islam Miah. Ha 34 anni e lavora come coibentatore nelle grandi navi da crociera che Fincantieri costruisce nel cantiere di Porto Marghera. La sera di lunedì 24 giugno, in piedi su un piccolo trabattello, sta rivestendo con pannelli di lana di roccia il soffitto e le pareti di una cabina. Cabine, corridoi, doppifondi. Spazi angusti, scarsa illuminazione. Un labirinto ostile dove il corpo dei lavoratori si raggomitola o si allunga per raggiungere anche le superfici più difficili, con l’acciaio che diventa ghiaccio in inverno e il sudore che brucia gli occhi e inzuppa le tute a luglio. Bisogna fare uno sforzo per immaginare quanto una gigantesca scatola di lamiere di acciaio come questa possa diventare rovente sotto il sole, e forse è ancora più difficile pensare a come dev’essere lavorarci dentro, con i pesanti grembiuli da saldatore o la tuta da carpentiere, anche più di 10 ore al giorno, anche 6 giorni su 7. Per settimane, mesi, anni. Sono passate le 18 quando all’improvviso Islam lamenta un malore e perde l’equilibrio: cade all’indietro, batte la testa e perde i sensi. Viene visitato prima nell’infermeria dello stabilimento e poi trasportato d’urgenza all’ospedale dell’Angelo di Mestre. A Porto Marghera sono centinaia i bangladesi che come Islam lavorano nelle oltre 400 aziende che operano in appalto e subappalto per Fincantieri. Come lui sono coibentatori, oppure saldatori, carpentieri, molatori. Arrivano dalle province più remote dal Bangladesh o dalle città più popolose come Dacca o Chittagong, molti sono in Italia da anni, pochi hanno ottenuto la cittadinanza e tanti, sembra, hanno difficoltà a raccontarsi, perché non conoscono la lingua o perché hanno paura di perdere il lavoro e quindi il permesso di soggiorno. Islam è arrivato in Italia nel 2008 e ha cominciato a lavorare nelle grandi navi da crociera di Fincantieri nel 2016. Sono passati 8 anni e oggi è il suo funerale.

Kamrul ci ha avvisati con un breve messaggio su WhatsApp: “Domani alle ore 11.00. Via F. Linghindal 6”. Non sono mai stato a un funerale musulmano, e di certo non mi sarei aspettato di vederne uno in un’ex zona industriale. Poco distante da Corso del Popolo, via Linghindal si trova all’inizio di una grande area cementificata punteggiata da bassi capannoni che oggi sono stati riqualificati senza criterio apparente con campetti di padel, autofficine, negozi di auto e discount. C’è anche un mini distretto alberghiero costruito nel 2017 tra le proteste dei cittadini che lamentano la trasformazione di Mestre in un dormitorio per i turisti diretti a Venezia. Ci passiamo in macchina, e osserviamo una coppia in canotta cappellino e zainetto sciabattare sotto il sole in direzione della stazione dei treni.

1. La bara di legno chiaro, priva di ornamenti, attende di essere rimpatriata in Bangladesh grazie a una raccolta fondi organizzata dalla comunità.

La bara di legno chiaro, priva di ornamenti, attende di essere rimpatriata in Bangladesh grazie a una raccolta fondi organizzata dalla comunità.

Più che una vera e propria moschea il Baytul Mamur Jame è una grande sala preghiera, o musalla, realizzata dentro un anonimo capannone preso in affitto un paio di anni fa dalla comunità bangladese. Parcheggiamo lungo la strada e assieme ad altre persone che da sole o in piccoli gruppi arrivano a piedi da via Torino attraversiamo il cancello che delimita il piazzale. Da un lato c’è il carro funebre e accanto i due addetti dell’agenzia, che dentro il loro impeccabile completo nero sembrano non patire il caldo. Non c’è aria a portare un po’ di sollievo e non si sente l’odore dolciastro dei crisantemi, o quello pungente e speziato dell’incenso. Noi guardiamo il feretro in legno chiaro di fronte alle vetrate scorrevoli della sala preghiera, lasciate aperte per il gran caldo: è poggiata su di un carrello a rotelle in tutta la sua semplicità, senza fotografie o corone di fiori.

Gli ultimi ritardatari si sfilano veloci le scarpe gettandole nel mucchio e a piedi nudi prendono posto nello stanzone. Si stringono tra altre decine di uomini inginocchiati fianco a fianco, come un muro compatto che ondeggia rivolto verso la bara posta all’esterno, e guidati dalla voce dell’imam diffusa dagli altoparlanti intonano la preghiera funebre della Salatul Janazah. All’ingresso sandali e ciabatte formano un tappeto caotico, come a segnare il confine tra sacro e profano, tra il luogo di preghiera e lo spazio aperto battuto dal sole in cui ci stiamo arrostendo io e Sofia. C’è qualcosa di ipnotico in questa litania recitata in lingua bengali: guardo i volti scuri degli uomini in jeans e kurtas, il dondolio sincronizzato dei corpi e i colori variopinti dei loro piccoli copricapi e provo a immaginarli con caschetto e tuta da lavoro a saldare tonnellate di piastre d’acciaio per una delle più grandi aziende partecipate dallo Stato italiano.

2. Partecipanti al funerale

Partecipanti al funerale

Lui da tanti anni faceva quello che mette i rivestimenti per tenere isolati dal caldo, o dal freddo, e dai rumori. Lavorava in squadra. Io invece faccio il tubista, lavoro in alto. È tanto faticoso sì. Lui era mio coinquilino, sua moglie e i suoi figli piccoli sono in Bangladesh”. A parlarmi è Faruk, polo giallo limone acceso sulla pelle scura e capelli nerissimi, sorride mostrando tutti i denti quando parla di Islam e del lavoro pesante. “Adesso bisogna aspettare gli esami per capire perché è caduto, se è stato male per il caldo o altro. Perché lui stava bene.” Accanto a lui un ragazzo annuisce, vorrebbe dire qualcosa ma non riesce a esprimersi in una lingua che forse non conosce abbastanza bene. Chiedo a entrambi della salma, e Faruk mi spiega che verrà sepolta in Bangladesh. “La comunità ha raccolto dei soldi per la famiglia. I soldi servono anche per il viaggio. Ci vogliono 4.000 euro”.

Il carro funebre passa quasi inosservato quando lascia il piazzale. La sala di preghiera ora è vuota, restano solo i ventilatori sparati al massimo mentre fuori le persone staccano bici e monopattini dalla ringhiera e si allontanano verso il centro di Mestre. Mi aggiro nel piazzale con discrezione per cercare di chiacchierare con qualcuno, ma non sono in molti a voler parlare di Islam, anzi, Faruk è l’eccezione. Un anziano con una folta barba arancione si schermisce e mi dice brusco di non averlo mai conosciuto. Sotto il sole sono rimasti pochi capannelli di persone, vedo Kamrul chiacchierare mano nella mano con un signore piccolino tutto vestito di bianco. “Siete riusciti a parlare con qualcuno? C’era tanta gente. Il funerale è stato fatto di domenica perché così tutti quelli che lavorano possono venire”. Kamrul Syed è il portavoce della comunità bangladese a Mestre, lo conosciamo da qualche settimana. Ci stringe la mano e ci saluta, è atteso per un’intervista al cimitero di Marghera. Nell’area di sepoltura islamica è rimasto solo un posto disponibile.

4. La gru a cavalletto di Fincantieri

La gru a cavalletto di Fincantieri

Vedo la gigantesca gru a cavalletto solo adesso che risalgo in macchina. È sempre stata lì per tutto quel tempo a guardarsi il funerale in fondo a via Linghindal, oltre i binari della stazione, a Porto Marghera. Per un attimo resto a fissarla appoggiato alla portiera, sorpreso e stordito dal caldo di mezzogiorno. So che si vede un po’ da tutta la zona sud-est di Mestre, che è alta 70 metri e larga 160, che è una delle più grandi in tutta Europa. Sul lato della trave principale rivolto verso la città, a grandi caratteri bianchi su sfondo blu, c’è scritto Fincantieri.


Federico Rigamonti (1990) è assegnista presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Ca’ Foscari a Venezia. Dopo un dottorato di ricerca in letteratura comparata ha frequentato la scuola Jack London. Questo è il suo primo reportage.

Sofia Gastaldo (Padova, 2003) è una fotografa e filmmaker. Nel 2024 si diploma alla scuola di letteratura e fotografia Jack London e viene selezionata per lo Speciale Diciottoventicinque a Fotografia Europea con il progetto “Sibyllae”. Attualmente sta conseguendo la laurea triennale in Scienze Sociologiche presso l’università di Padova. E’ co-fondatrice del collettivo di artisti e curatori “Shapeless Gallery”.


Le immagini raccontano il funerale di Islam Miah, celebrato nella sala di preghiera Baytul Mamur Jame a Mestre, un luogo semplice e raccolto adattato dalla comunità bangladese. Sullo sfondo Mestre e la gru di Fincantieri ricordano la realtà di sacrificio e invisibilità sociale che questi lavoratori affrontano quotidianamente.

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