#Blog EllePì – Il lavoro come spazio di senso e costruzione identitaria

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Tempi moderni o tempi postmoderni che siano, la pratica del lavoro oggigiorno risulta essere completamente svuotata del significato profondo che dovrebbe avere per la fioritura dell’essere umano. A ben vedere, di umano rimane ben poco. Sovente, infatti, accade di dedicarsi alla attività lavorativa per esigenze di mera sussistenza, ricercando, laddove non si rimanga invischiati nella routine del “dover fare”, il perseguimento della efficienza disincarnata: l’indifferenza e l’omologazione conducono verso una società sempre più capitalisticamente tesa alla definizione di individui che producono e che consumano, depersonalizzati. Derealizzati.

Perdere il contatto con la propria persona, con il fondamento antropologico che ci abita, significa perdere il contatto con la realtà e con le dinamiche e le azioni che la costituiscono. Il problema, forse, risiede non tanto nell’aver accettato di strutturare una società basata su dinamiche capitalistiche, quanto nell’aver imposto alle proprie decisioni una logica che persegue, attraverso un effetto di economicizzazione, la massimizzazione dell’utile, permettendo a questa dinamica di diffondersi e sconfinare entro territori di pertinenza altra. È urgente, insomma, ricalibrare il rapporto tra economia ed etica, permettendo alla seconda di tornare ad essere guida immanente alle pratiche della prima. E per fare ciò occorre partire dal presupposto che l’utilitarismo che tanto impera è riduttivo, oltre che logicamente fallace. Questo perché la pretesa di considerare ogni scelta come votata alla razionalità tout court è del tutto illegittima se si considera come ad ogni azione corrisponda una premeditazione, una decisione, cioè, che inquadra il decisore entro un preciso corollario morale, a partire dal quale si sostanzia la scelta, frutto dello scrutinio valoriale che viene puntualmente compiuto. Questa breve indicazione è sufficiente per considerare come sia inesatto il ragionamento utilitaristico ed il suo tentativo di giustificare una percezione solipsistica ed autocentrata; agire è non solo razionalità, dunque, ma anche (e soprattutto) ragionevolezza. Essere ragionevoli vuol dire allora costruire un ponte tra ciò che è il sostrato morale e ciò che è l’agire etico, ragionando sui contesti e non fermandosi alla coerenza teorica, rintracciando un sostrato ontologico che, a dispetto dell’autosufficienza utilitaristica tanto difesa e foraggiata, è primariamente relazionale.

Lasciarsi orientare dall’etica, dalla relazionalità come principio fondamentale vuol significare che occorre partire dalle urgenze concrete a cui la dimensione del lavoro ci chiama a rispondere, per provare a definire una percezione del lavoratore armonicamente integrata tanto con la sua intima specificità in quanto persona, quanto con la comunità con cui interagisce e della quale fa parte. Spinti da questo intento, potremmo allora provare a ragionare sulle modalità concrete del darsi del lavoro, eleggendo il contesto aziendale a luogo di analisi e sperimentazione multidisciplinare. In questo modo si possono rintracciare delle pratiche di coerenza tra il nucleo strategico ed i sistemi di gestione delle risorse umane, così da promuovere la libertà poietica di ciascun lavoratore, osservando il fare impresa da una prospettiva che integri aspetti squisitamente manageriali a questioni intimamente filosofiche. È il caso, questo, della prospettiva etica di Paul Ricouer, la quale si modula secondo la triade composta da stima di sé, sollecitudine, istituzione. Intendere l’impresa economica come una istituzione in senso ricoueriano, vuol dire lasciar trasparire in prima istanza la definizione comunitaria che la caratterizza. Ciò significa che ogni lavoratore va considerato come strettamente connesso ad un sistema complesso posto a garanzia delle sue possibilità di espressione. Non solo: l’impresa vista come istituzione permette di porre in risalto l’elemento della alterità, la quale è cifra di un duplice dispiegamento euristico, attraverso cui ci si pone in relazione con gli altri, i colleghi (sollecitudine) e nel far ciò ci si conosce in quanto soggetti che prima di essere lavoratori sono agenti morali (stima di sé).

Dal confronto tra la prospettiva etica ricoueriana e le teorizzazioni svolte sia dal punto di vista dell’ingegneria gestionale, sia dal punto di vista del management, traspare una nuova modalità di vivere e percepire il lavoro, del tutto inedita e completa se si pensa alla parzialità in cui ricadono le teorie sviluppate sinora, le quali si arrestano alle soglie della propria pertinenza disciplinare. Da questa evidenza è possibile spingersi oltre e notare che l’elemento concreto che potrebbe contribuire ad instaurare un sistema lavorativo giusto è quello di una comunicazione efficacemente etica. Occorre considerare, infatti, che spesse volte il modo di comunicare nella e dell’impresa è votato ad esaurirsi nella sola portata informativa della comunicazione. Fermarsi ad un modo di comunicare di questo tipo, quantunque possa significare l’esito di una comunicazione effettivamente risolta, risulta essere indice di una relazione recisa, di un dialogo mai voluto pronunciare del tutto. In effetti, proprio la dimensione dialogica, quella del people manager che si fa mediatore orizzontale fra le esigenze di vertice ed i propri collaboratori, permette l’uscita da una impronta comunicativa monologica e meccanica attraverso la consapevolezza che ad ogni dire corrisponde primariamente un udire. Ciò che effettivamente va attuato per ripristinare il fondamento relazionale di una organizzazione è proprio una disponibilità all’ascolto: un minimo sforzo fatto in termini di ascolto delle esigenze del lavoratore può massimizzare esponenzialmente le possibilità aziendali, perché massimizzata è la potenzialità creativa di ciascuna persona.

Una comunicazione veracemente orientata all’etica ed all’ascolto dell’alterità conduce alla considerazione del lavoro come dimensione parziale dell’umano, che si integra con la totalità e multidimensionalità antropologica che ci caratterizza, perché il lavoro viene finalmente osservato come luogo di scaturigine del senso e del riconoscimento di sé, all’interno del quale non ci si smarrisce ma, anzi, si perfeziona la conoscenza di sé e del proprio essere parte di una collettività. Il bilanciamento tra la propria matrice morale ed il sistema valoriale dell’impresa conduce ad una verace possibilità di coinvolgimento del lavoratore nel solco di una teleologia comune che lo estrapola dall’anonimato e lo connota come protagonista attivo della propria vita lavorativa. Comunicare nell’azienda in modo etico, insomma, conduce al rintracciamento di una duplice caratterizzazione relazionale, modulata secondo i termini della interpersonalità (perché l’azienda è percepita come ecosistema corale) e della intrapersonalità (ci si riconosce e si persegue una definizione identitaria capace di armonizzare le dimensioni molteplici che connotano la propria specificità antropologica).    

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Per ulteriori approfondimenti si rimanda a:
GABRIELLI G., People management. Teorie e pratiche per una gestione sostenibile delle persone, Franco Angeli, Milano, 2010.
GIOVANOLA B., Oltre l’homo oeconomicus. Lineamenti di etica economica, Orthotes, Napoli, 2012.
RICOEUR P., Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 2020.
SCARAFILE G., Ascolto e comunicazione. Se voglio parlarti, non ho niente da dirti, Morcelliana, Brescia, 2020.


Nicolaj Corrado
Laureato in Etica Applicata presso l’Università di Pisa, sta attualmente frequentando il master di II livello in Sviluppo delle Risorse Umane. Collabora con alcune imprese toscane e calabresi, fornendo consulenza etica. Ha vinto l’edizione 2021 del Premio “Valeria Solesin” per Tesi di Laurea Magistrale della Fondazione Lavoroperlapersona.

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