#BlogEllePì – La cura tra prossimità e distanza. Appunti dalla IX Summer School EllePì

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L’edizione 2021 della Summer School per giovani ricercatori – promossa dalla Fondazione Lavoroperlapersona e arrivata alla nona edizione – quest’anno ha esplorato il tema della cura a partire dalla doppia cifra della prossimità e della distanza. Il percorso, dunque, si è lasciato provocare provocare dalla drammaticità dell’evento pandemico – che ci ha costretto a ripensare queste due cifre del nostro esistere – provando anche a cucire un filo di continuità con il tema del prossimo Film Festival Offida di Settembre.

I partecipanti e i relatori – provenienti, come nella tradizione di questa esperienza a forte vocazione interdisciplinare, da diversi ambiti accademici (filosofia, psicologia, economia e mondo dell’impresa, sociologia, bioingegneria, diritto del lavoro) – hanno inteso rispondere all’urgenza di ripensare le forme della cura muovendo dall’esperienza della distanza e dalla necessità di una nuova prossimità. Le nuove tecnologie e il mondo digitale possono essere opportunità oppure sono sempre nemiche della fioritura dell’umano? Come gestire le trasformazioni della cura nel lavoro, nella società, nelle relazioni personali? Quali nuove diseguaglianze potrebbero emergere? Quale politica è all’altezza di queste sfide?

Queste alcune delle domande emerse nei quattro giorni durante i quali si sono alternate lezioni magistrali, tavole rotonde, momenti di lavoro di gruppo e dibattito (“a distanza”, alternando connessione e disconnessione, e non – purtroppo – nella splendida cornice di Offida, ma cercando di praticare e sperimentare una forma non meno autentica di prossimità). Accomunati dalla volontà di estendere gli orizzonti delle proprie ricerche, mossi dalla persuasione che occorra scardinare la vecchia alternativa tra apocalittici e integrati, i relatori che si sono avvicendati nelle diverse giornate hanno dato forma a un’idea di cura inedita, eppure praticabile, che si declina nei termini della fiducia e della responsabilità, dentro un orizzonte comune relazionale.  

Cosimo Accoto ha proposto una lettura radicale della novità del software e del digitale, analizzando le potenzialità e i rischi di una nuova ontologia che fa meno paura se pensata nei termini di un’ermeneutica. Le tecnologie digitali, definite “soteriche ed esoteriche nello stesso tempo”, sembrano sfidare, scardinare e turbare il nostro mondo. Occorre avere il coraggio di guardare al cambiamento, comprendere come anche il concetto di cura venga ridisegnato, a partire da tecnologie che appaiono capaci di “raccogliere la verità dei nostri corpi” e rischiano di favorire quella “pigrizia epistemologica” pericolosamente vicina all’automatismo che è “la malattia dell’uomo” (Stoppa). In dialogo con Accoto, Luigina Mortari ha proposto un percorso alla scoperta della centralità del paradigma della cura, rimasto fin troppo implicito nel pensiero e nelle pratiche occidentali, sempre più votate alla logica prestazionale. Mortari, sulla scorta di una declinazione dell’umano come soglia di ospitalità, ha evidenziato come non possa esserci cura di sé senza cura dell’altro. Questo invito a ridisegnare e riposizionare la relazione tra “io” e “tu” entro coordinate non escludenti è anche traccia della volontà di ricondurre e riconoscere all’umano una dinamica che tiene conto del limite e della creatività come due grandezze non contrapposte, ma coimplicate. Non valgono le dicotomie, ma le interazioni dinamiche.

Con la sua relazione intitolata La cifra antropologico-relazionale della distanza: sfide e prospettive, Donatella Pagliacci ha approfondito tale ambito semantico a partire dalla constatazione che la distanza non è sempre negativa, né sempre positiva. Per poterne fare buon uso, occorre approfondirne risorse e limiti e ricondurla a una postura tipica dell’umano, una capacità che dice della finitudine, della rilevanza del “tra”, che sfata il mito per cui immediatezza e prossimità coinciderebbero. La distanza diventa per questa via un “modo di essere con l’altro più organizzato e riflessivo”, che assume la “fiducia come parola redentrice del nostro tempo”. Il forte richiamo alla pazienza della costruzione e alla cura dei legami si nutre quindi di una distanza tra persona e natura, tra sé e sé, che dice insieme di un’eccedenza e di un’eccentricità, di uno spazio della relazione. Così declinata, la distanza è vitale anche nelle relazioni di cura, perché diventa sinonimo di compassione.

La tavola rotonda con Valerio Capraro e Massimo Mercati, intitolata Cura del mondo, cura della natura, ha esteso gli scenari della cura nel senso dei legami sociali, della vita dell’impresa e della relazione tra uomo e natura. Se occorre tener fede a un umanesimo che non abdichi alla ragione e alla scienza, è altrettanto necessario oltrepassare la dicotomia tra un agire strategico-strumentale e uno meramente disinteressato, per poter attraversare i conflitti sociali senza cedere alla tentazione dell’indifferenza, riconoscendo che le reti sociali agiscono “nel segno del significato”. La cura del mondo passa anche attraverso un ripensamento dell’impresa come “sistema vivente” e dunque complesso, che tenga fede al legame inscindibile tra bene individuale e bene comune, rifletta una visione sistemica, si confronti con il tema della crescita dal punto di vista qualitativo e, infine, collochi il beneficio sociale e pubblico nel core business dell’impresa.

La relazione di Francesco Stoppa, intitolata Come abitare la distanza. Riflessioni sul prendersi cura, ha preso le mosse dall’idea che l’uomo, parafrasando Heidegger, abiti traumaticamente, e che dunque la cura sia una cifra essenziale, un apprendistato fondamentale per l’umanizzazione. Ogni percorso di cura è quindi un rilancio e una scoperta dei presupposti dell’umano che, perdendo progressivamente il privilegio dell’immediatezza onnipotente con le cose, impara a sostare nel vuoto, in primis attraverso il linguaggio. La cura è dunque costitutivamente inquietudine, equilibrio tra la pretesa del soggetto di aggrapparsi a qualcuno che sia “garanzia della sua vita” e il rispondere di chi cura, che significa fare da sponda senza sostituirsi. La clinica non è tecnica, ma postura, presidio della soglia. La distanza, dal canto suo, si fa nostalgia dell’immediatezza.  

La seconda tavola rotonda, con Luca Tomassini e Armando Miano, intitolata Economia e responsabilità, ha messo a tema la necessità di ripensare le diseguaglianze in un mondo abitato dal digitale, in cui aver cura significa anche rispondere con policies adeguate alle nuove povertà, all’esigenza di nuove professionalità, a nuovi bisogni emergenti. Se la globalizzazione determina vincitori e vinti, occorre puntare sull’agire cooperativo e investire in nuove forme di socializzazione della ricchezza. Come far fronte alla povertà digitale? Come trasformare le nuove tecnologie in altrettante opportunità di legame tra locale e globale senza alimentare il mito della democrazia diretta?

La giornata conclusiva ha ospitato un fruttuoso dialogo a distanza fra Maria Chiara Carrozza e Tiziano Treu. Carrozza ha sottolineato come la robotica, nelle sue articolazioni e applicazioni ai contesti medici e bioingegneristici, sia capace di supplire al gap tra autonomia e dipendenza che molte patologie provocano, accentuando la vulnerabilità intesa come attaccabilità da parte di qualunque cambiamento. Treu ha evidenziato la necessità di prendersi cura del lavoro, disegnando peraltro uno scenario in cui enorme spazio sarà dato ai lavori di cura. Occorre, a suo avviso, che l’intelligenza umana sia capace di assoggettare i devices all’umanità. Il welfare sussidiario, così come l’universo della formazione, devono essere all’altezza di due sfide: costruire e consolidare “competenze specifiche, professionalità e organizzazione adeguate percombinare vicinanza ed efficienza”; far emergere il sommerso, finora senza tutele e senza sostegni.

Luigi Alici, direttore della Summer School, ha sottolineato in chiusura la necessità di adottare un paradigma olistico, capace di “allargare gli orizzonti, superare gli stereotipi, ripensare il pensare”, invitando a “fare i conti con le nuove tecnologie senza lasciare che l’umanesimo si allontani o si avvicini alle tecnologie in modo moralistico”. Gabriele Gabrielli, presidente della Fondazione, ha invitato a “guardare con fiducia” al futuro, tenendo conto che la tecnologia non è neutrale, che può dar vita a un nefasto capitalismo senza volto. Per questo, a suo avviso, la trasformazione deve accadere all’insegna della sostenibilità, rendendo ciascuno e tutti responsabili del futuro.


Luca Alici è professore associato di Filosofia Politica presso l’Università degli Studi di Perugia. Fa parte del comitato di direzione dell’annuario di studi filosofici Anthropologica, del comitato scientifico della rivista internazionale Critical hermeneutics, del comitato di redazione del sito della Società Italiana di Filosofia Politica e della rivista Cosmopolis. È membro del Centro Studi Jacques Maritain e del Centro di Ricerca EllePì. È stato vice-presidente di Rondine Cittadella della Pace (2014-2016) e responsabile della ricerca sul Metodo Rondine.

Silvia Pierosara è ricercatrice in Filosofia morale presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Macerata e membro del Comitato scientifico del Centro di Ricerca EllePì. Le sue ricerche indagano l’intreccio tra dinamiche di riconoscimento e pratiche narrative; il rapporto tra legami privati e relazioni pubbliche; il concetto di autonomia etica alla luce dell’interdipendenza. Tra le sue pubblicazioni: Differenze e narrazioni. Per un universale etico condiviso (2018); Autonomia in relazione. Attraverso l’etica contemporanea (2021).

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