#Blog EllePì – Leadership sostenibile. Tra prossimità e possibilità

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La massiccia mole di remote working assunta negli ultimi anni è stata certamente una modalità vincente per superare eventi straordinari che hanno minato con forza gli equilibri lavorativi. Modalità, questa, che al netto delle esigenze obbliganti intercorse, rappresenta tutt’oggi una risorsa imprescindibile in termini di flessibilità organizzativa: tanto c’è ancora da lavorare per far sì che venga gestita nel migliore dei modi, eppure a livello nazionale non si può essere che fieri e speranzosi, stando alle garanzie contenute nella legge n.81/2017, alla circolare INAIL n. 48/2017 e agli adempimenti successivi. Il lavoro da attendersi in merito a questo punto riguarda, certamente, una costante ottimizzazione giuridica per preservare una pratica che deve ambire ad essere realtà comune e stabile, eppure occorre soffermarsi e riflettere su quelle che possono essere le sue ripercussioni secondarie, soprattutto per quanto riguarda aspetti di riconfigurazione del design organizzativo. Su quest’ultimo aspetto c’è da sottolineare che la complessità nel mettere in atto politiche che salvaguardino il remote working tendono a concentrarsi il più delle volte sulla ricerca di equilibrio tra le ore spese in ambienti organizzativi consueti e lavoro da remoto, sugli indici di efficacia registrati nel lavoro da casa e sulla qualità del benessere che aumenta in ragione della flessibilità. Non deve essere sottovalutato, però, un aspetto molto importante che si sostanzia a partire dalla messa in opera di pratiche di lavoro agile, cioè a dire la relazione tra collaboratori ed in particolare la relazione tra lavoratore e manager. Ecco: la vera sfida del remote working risiede, forse, nella capacità di percepire il senso organizzativo, la relazione con i propri colleghi e con gli obiettivi organizzativi aziendali.

La prospettiva migliore a cui riferirsi è proprio quella del rapporto tra manager e lavoratore, semplicemente perché rappresenta la cifra del raccordo tra persona, lavoro ed organizzazione; senza questo rapporto è improbabile che si realizzino consapevolezza della strategia, della mission, della vision e del purpose aziendale. Improbabilità, questa, che si converte in decisa impossibilità, laddove si tratti di remote working. Con feedback assolutamente non omogenei ed altalenanti, i report sul lavoro agile segnalano casi di insoddisfazione da parte dei lavoratori in merito alla percezione della presenza di propri dirigenti.

Chiariamoci: l’uso dei termini manager o dirigente è un utile espediente semplificativo per comprendere maggiormente ciò di cui si tratta, ma questo non vuole affatto significare che siano termini appropriati; non è un caso se la locuzione manager provenga dall’inglese to manage che indica originariamente l’attività di maneggiare i cavalli: si tratta di termini, in sostanza, che mettono ancora di più l’accento sullo iato di disparità esistente in un rapporto tremendamente verticale fondato sul ruolo, che poco giova alla dinamica relazionale segnata, per contro, dalla parità di dignità che ciascun lavoratore ha in quanto persona. E se occorre trovare una armonizzazione geometrica affinché il rapporto di “altezza” si concentri in una reciprocità che stimola la relazione, occorre anche stabilire, sulla base di questa stessa relazione, una proporzione in “larghezza”, metafora spaziale atta ad indicare propriamente l’estensione e la qualità del rapporto tra l’improprio manager e l’improprio sottoposto.

Occorre, insomma, armonizzare la distanza tra collaboratori dal diverso ruolo e dalla medesima dignità personale, tentando di innescare una medietà virtuosa tale per cui il canale comunicativo della strategia e dei valori aziendali si traduca operativamente. Occorre che il manager si faccia leader e che la distanza tra sé ed il collaboratore divenga prossimità indirizzata alla cura, all’ascolto, al dialogo; non si tratta di annullarsi per comprendere l’altro quanto, piuttosto, di interessarsi all’altro nella relazione, utilizzando categorie proprie della individualità contigua, evitando di agire meccanicamente dando per scontato quelle differenze personali che permettono di distinguerci in quanto individualità particolari.

Leadership di prossimità, dunque. Essa rappresenta davvero il metodo vincente per creare vero e proprio coinvolgimento, per far sì che anche il remote working divenga una pratica efficiente per l’organizzazione ed efficace per la vita lavorativa di ciascuna persona e della comunità definita tra collaboratori. In un articolo non più recente ma significativo, pubblicato da Andrea Beretta per Il sole 24 ore nell’aprile 2021, l’autore definiva i tratti della leadership di prossimità considerandola come espressione di un pop management rivolto alla cura delle persone in netto contrasto con la cultura del top management, più orientata alla performance. È ragionevole credere che i confini non siano così definiti, ma che ci siano linee di continuità e non esclusività: un lavoratore che percepisce la vicinanza del proprio leader sarà portato ad agire in maniera più serena e produttiva, replicando e superando alcune rosee ricerche che dimostrano un incremento della performance durante il remote working. Con la leadership di prossimità, infatti, si può sperare in un incremento di produttività correlato ad un più alto tasso di soddisfazione sul lavoro, aspetti che impattano positivamente nella possibilità di co-creare gli spazi di lavoro stessi, garantendo una ben più bilanciata armonizzazione del lavoro da remoto con quello svolto in presenza. In buona sostanza, l’esperienza del remote working è occasione di ripensamento e ricalibrazione nello stile di leadership per scorgere nuovi universi di significato e nuove possibilità di generare senso. È un modo nuovo, forse, di esperire quel metodo dell’affetto, che Alfred Hirshman ed Eugenio Colorni inserivano sul solco delle teorie possibiliste, giacché per generare un cambiamento è necessaria una spinta affettiva tale per cui la persona abbia contezza della “percezione delle possibilità che le si aprono dinanzi. Ella si sentirà rassicurata, incoraggiata, stimata fino al punto di trovare la forza di agire” (Meldolesi 2020).

Il punto della questione risiede in un cambio di paradigma che già Gabrielli individuava in un 2018 ancora non interpellato dalla presenza pandemica del Covid-19, allorché preannunciava un passaggio obbligato dalla digital transformation non solo nello stile e nel modello ma, soprattutto, nel modo di vivere la leadership. Nello scritto la “leadership di prossimità”, essa è accountable della crescita degli altri dei quali asseconda percorsi e progetti di sviluppo ed effettiva autonomia” (Gabrielli 2018), si sostanzia quale esercizio di matura autoriflessione: non più solipsismo autocentrato, ma passaggio dalla modalità “io” alla modalità “noi”. Non più prensione ma dono; dono all’interno di una comunità, dono vissuto nei momenti del “dare, dell’accettare, del restituire” (Gabrielli 2016). Se tutto ciò non fa che confermare una esigenza di rinnovamento attorno all’esercizio della leadership, dà riprova altresì della possibilità di cambiamento attraverso il metodo dell’affetto colorniano. Tutto ciò che è affetto, infatti, presuppone la presenza di una alterità: si prova affetto verso, si può persino essere affetti da, ma è scorretto sostenere di “essere affetti da sé stessi” oltre che piuttosto improbabile il provare “affetto verso sé stessi”. Quest’ultima occorrenza, forse, appare quella più emblematica e, insieme, più esplicativa: si può possedere una forte autostima, si può addirittura amare la propria persona sino al limite del narcisismo, ma l’affetto non può mai essere autodiretto. Ecco perché abbiamo bisogno di un “noi”, della relazione. Ecco perché non si può evitare la presenza, implicita o esplicita che sia, dell’Altro.

Ora più che mai è necessaria una conversione orientata alla leadership di prossimità per rendere pregno di senso il nostro lavoro, dischiudendo senza timore le possibilità inedite di un agire votato alla generosità ed al riconoscimento della persona, prima ancora che del lavoratore. È una questione di benessere comunitario presente e futuro, di rinnovazione urgente che ogni leader che si rispetti può apprendere agendo. Perché se è vero che “il metodo dell’affetto insegna a dare per ricevere” (Meldolesi 2020), è altrettanto vero che “chi non sa praticarlo deve apprenderlo: bisogna fargli capire in ogni modo possibile […] che non può pretendere di ricevere se non impara a dare, a dare più di quanto riceve. Solo così, miracolosamente, egli riceverà abbastanza” (ibidem).


BIBLIOGRAFIA
Beretta A., La leadership di prossimità come fattore di efficacia manageriale, IlSole24ore, 20 Aprile 2021, https://www.ilsole24ore.com/art/la-leadership-prossimita-come-fattore-efficacia-manageriale-ADnVxwOB
Gabrielli G., Figure di leadership. Dalla mediazione della verticalità alla responsabilità della prossimità, Blog EllePì, 6 Giugno 2016, https://www.lavoroperlapersona.it/2016/06/06/figure-di-leadership-dalla-mediazione-della-verticalita-alla-responsabilita-della-prossimita/
Gabrielli G., Il viaggio del leader nella digital transformation, Leadership&Management, 24 Aprile 2018, https://www.leadershipmanagementmagazine.com/articoli/il-viaggio-del-leader-nella-digital-transformation/
Meldolesi L., Eppur si può! Saggi e istruzioni autobiografiche e “filo-possibilliste”, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2020.


Nicolaj Corrado
Laureato in Etica Applicata presso l’Università di Pisa, ha frequentato il Master di II livello in Sviluppo delle Risorse Umane. Collabora con alcune imprese toscane e calabresi, fornendo consulenza etica. Ha vinto l’edizione 2021 del Premio “Valeria Solesin” per Tesi di Laurea Magistrale. Cultore della materia in etica applicata e antropologia filosofica, attualmente frequenta il Master di I livello in Sustainable Human Resource Management (SHRM) della Università Europea di Roma, realizzato in collaborazione con la Fondazione Lavoroperlapersona.

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