#BlogEllePì – Persona e tecnologia: rintracciare una via di uscita dal feticismo capitalistico

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Uno degli aspetti più vistosi della organizzazione del lavoro della Gig Economy è la sottomissione all’algoritmo. La tecnologia rende così impersonale persino il rapporto capitalistico classico: il lavoratore non sa letteralmente più per chi lavora, in verità sa poco o nulla del proprio lavoro, certamente meno di quel che si sapeva nel modello classico.

Ora, se proviamo a osservare questo aspetto con più attenzione, scopriremo paradossalmente che esso non è altro che la riproposizione di un problema molto classico del capitalismo. Quel che già Marx definiva sotto il nome di “feticismo delle merci”. In cosa consisterebbe? Nel fatto che nel capitalismo le persone – e il rapporto tra loro – vengono sempre più nascoste, celate, «dall’involucro delle cose», così scrive Marx. I rapporti personali, i rapporti reali, vengono sempre più rimossi e celati attraverso dei rapporti di feticismo. Sembra sempre più evidente che la tecnologia, e tutta la questione della tecnologia e del suo rapporto di apertura con la persona, sia legata a questo elemento. Quello che è necessario fare è cercare disperatamente, in tutte le forme possibili, di evitare un eccesso, un’aggiunta di feticismo, tentando invece di “sfeticizzare” i rapporti economici.

Questo vale per la tecnologia ma non vale soltanto per la Gig Economy, in cui questa dimensione per cui le persone sono state involucrate dalle cose è una dimensione letterale: il lavoratore non sa più per chi lavora e non sa più che cosa fare. Tutta la mediazione personale passa ormai attraverso l’involucro delle cose (pensiamo ai dispositivi e alla ambivalenza del tentativo, anche filosofico, di naturalizzarli). In questo momento storico è fondamentale chiedersi: stiamo facendo un’esperienza feticista, dal punto di vista del rapporto fra le persone e le cose? Stiamo trasformando le persone in cose, oppure stiamo provando a lasciare intatte le persone all’interno di un setting tecnologico che, in quanto tale, è spersonalizzante? Questo è proprio il punto fondamentale su cui la riflessione è ancora di là da venire: l’applicazione di questa categoria classica al tema del rapporto tra la nuova tecnologia e le persone è una riflessione che richiederebbe ulteriori approfondimenti.

Ma intanto, al di là della trascendentalità di questa questione antropologica, c’è un fronte normativo che deve essere frequentato. Le norme e le tutele possono contribuire a sfeticizzare il mondo del lavoro, per quanto possibile. Per esempio, alle persone può e deve essere riconosciuto la necessità di avere una zona franca dal lavoro. Certamente sono dei semplici diritti negativi, ma intanto avrebbero una loro incidenza nella costruzione della sfera pubblica operata dal mondo del lavoro. Il diritto alla disconnessione e il diritto all’oblio, per citarne soltanto due. Colpisce il fatto che anche laddove potrebbero essere applicabili questo non avvenga. Essendo ancora diritti negativi, attraverso essi la persona, in fondo, si mette a riparo dalla tecnologia; non la utilizza in forma euristica non riuscendo, pertanto, a valorizzare la capacità che la tecnologia porta con sé.

Per ciò che concerne, invece, l’ambizione di una protezione positiva e non semplicemente negativa, sembra che il punto fondamentale sia uscire dall’intreccio fra autonomia e subordinazione, cioè trovare una terza via che permetta delle tutele che precedano, per così dire, il nostro essere a rapporto con la tecnologia. Delle tutele che vengano riconosciute a priori e non più a posteriori, rispetto ai processi lavorativi. Il ruolo del legislatore e dello Stato resta quindi fondamentale: la tracotanza che spesso appartiene alle piattaforme tecnologiche oggi si può limitare esclusivamente attraverso un ritorno a delle tutele che abbiano una garanzia pubblica. Il senso di questa garanzia pubblica è quello di insistere sul tema dell’universalizzazione e dell’universalità. Pertanto, l’idea di tutele universali contro la frammentazione del mondo del lavoro sembra, ancora, l’idea più efficace.

Ciò comporta però un cambio di paradigma. L’universalità non è più ciò che consegue al lavoro ma è ciò che lo precede. Non è ciò che viene garantito dal lavoro ma è ciò che garantisce il lavoro da un eccesso di feticismo. Sganciando il riconoscimento dei diritti dalla strada preferenziale del lavoro possiamo proteggere meglio il lavoro stesso. E farlo senza privatizzare ulteriormente i processi, ma universalizzandoli ulteriormente. Mi pare questa una delle scommesse pubbliche che il rapporto tra lavoro e tecnologia mette in campo e che richiede, a ben guardare, anche una trasformazione della nozione stessa di politiche del lavoro.


Sergio Labate insegna Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Macerata. La sua ricerca ha come focus privilegiati la filosofia del lavoro, il tema delle passioni come fonti dei legami sociali e la difesa della democrazia costituzionale nell’epoca del suo disincanto generalizzato. Tra le sue opere ricordiamo Passioni e politica pubblicato con Paul Ginsborg per Einaudi.

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#Blog EllePì - Tempo e precarietà: una riflessione sulla trasformazione del lavoro nella Gig Economy
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