#Blog EllePì – Tempo e precarietà: una riflessione sulla trasformazione del lavoro nella Gig Economy


L’esperienza dei riders illumina un lato oscuro che, in linea di massima, si nasconde in tutte le manifestazioni della trasformazione veloce e repentina che la tecnologia impone sul mondo del lavoro. Questo lato oscuro ha a che vedere con l’esperienza del tempo. In fondo appartiene alla storia profonda del capitalismo la promessa di liberare il tempo tramite un’accelerazione dei processi tecnologici. Ecco, attraverso la Gig economy questa promessa si svela come falsa e, piuttosto, facciamo esperienza del tempo come povertà. Certo, possiamo comprare ogni oggetto del nostro desiderio in presa diretta. Ma quella che appare come un’abbondanza del tempo (e che concerne il consumo) si rovescia drammaticamente in una sua povertà.

C’è una dialettica del tempo che implica certamente un’accelerazione del tempo, e che si configura come una ricchezza di tempo per il consumo e come una povertà di tempo per il lavoro. Quindi il lavoro, il lavoratore, sperimenta un tempo che diventa una forma di autocomprensione di sé come povero. In fondo, nella nozione di “lavoratore povero” dobbiamo considerare tante povertà: c’è la povertà di diritti, c’è la povertà di retribuzione e ci sono anche altre povertà che vengono spesso sottovalutate come la povertà di relazioni e la povertà di tempo. La mia tesi è che queste due povertà vengano esperite in modo particolarmente violento dai protagonisti della Gig economy.  

Dietro queste riflessioni aleggia, però, una inquietudine di fondo, che ha a che fare con il capire se i riders sono un’eccezione o se siano destinati a diventare la regola. Qual è il loro rapporto con la precarizzazione del lavoro? Sono semplicemente un’ulteriore generazione di precari (così da permetterci ormai di inserire all’interno degli studi di storia del lavoro un capitolo organico di “storia della precarietà”) o sono qualcosa di differente dalla precarizzazione? Portano a compimento un percorso che è in fase avanzata e che ormai si sta compiendo, oppure rappresentano un’eccezione che dobbiamo arginare? Mi sembra che questa domanda sia storicamente la domanda fondamentale e che la risposta non sia per nulla facile da dare, nella misura in cui si è dentro la risposta: i processi stanno agendo, anche i processi legislativi, proprio per provare a spostare la risposta un po’ più in qua e un po’ più in là.

È però certo che, per provare a rispondere con chiarezza, sia importante soffermarsi sul comprendere quale sia la differenza fra un rider e un precario. Si potrebbe rispondere, semplicemente, che la differenza sta nel fatto che il rider è un precario un po’ più povero: è un lavoratore povero un po’ più povero. Se però non ci accontentiamo di questa risposta, possiamo cercare di tornare alle due forme della povertà cui ho fatto riferimento un attimo fa.

Cominciamo con l’analizzare la prima, la povertà di relazione. Essa configura in modo preoccupante la dialettica fondamentale delle politiche del lavoro, quella tra autonomia e subordinazione. Nel caso dei riders si potrebbe dire che l’autonomia si svela nella sua faccia autentica: la dialettica non è ormai tra autonomia e subordinazione, ma è tra isolamento e subordinazione. Il lavoratore autonomo non è il lavoratore autonomo nel senso specifico della storia del capitalismo e del lavoro, ma è il lavoratore a cui è inibita qualunque possibilità di relazione. Tutti noi conserviamo l’immagine edificante dei riders che, durante la pandemia, occupavano spazi desolatamente vuoti. Ma a pensarci bene è un’immagine del tutto stilizzata e artificiale, perché la loro solitudine era per certi versi più opprimente della nostra: in quegli spazi desolatamente vuoti la loro solitudine non era “a casa propria”, ma era dentro un contesto in cui l’isolamento diventa la forma normale del tempo di lavoro. La stessa solitudine, certo. Ma una solitudine fuori dalla propria casa è una solitudine alienata per definizione (e anche per metafora).

La seconda povertà è di tempo, un argomento su cui c’è tanta bibliografia. Penso per esempio a un libro che si chiama “24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno”, di Jonathan Crary, in cui la tesi fondamentale è che il capitalismo, attraverso questa accelerazione del tempo, si mangia anche il tempo del sonno. A supporto di quest’argomentazione, ad oggi, abbiamo persino dei dati statistici, i quali ci indicano che noi dormiamo, per esempio, 30 minuti in meno rispetto a 30 anni fa. Cioè, in 30 anni ci siamo già giocati 30 minuti del nostro tempo di sonno. Si potrebbe dire che attraverso la Gig Economy il capitalismo sta andando all’assalto anche del tempo, cioè che ci sia un tentativo di accumulare accelerazione in cui però l’accelerazione del tempo di vita sia eterodiretta, cioè diretta e condizionata dall’accelerazione della tecnologia. La quantità del tempo si restringe, ma si restringe a causa di una qualità del tempo, del tempo di lavoro, che si è a sua volta ulteriormente ristretta, modificandosi nel senso di una solitudine di relazione.

Quando si parla del fatto che non esiste più distinzione tra giorni festivi e giorni feriali, si asserisce una cosa insieme vera e falsa. Da un lato, è vero che per il rider non c’è più differenza tra giorno festivo e giorno feriale, dall’altro, è anche vero, e lo si dimentica, che il giorno feriale di un rider corrisponde sempre a un giorno festivo di qualcun altro e viceversa. Al giorno festivo di un consumatore corrisponde, in sintesi, sempre un giorno feriale di un lavoratore. Allora, la verità è che non si può dire semplicemente che la concezione del tempo è quella per cui non c’è più il giorno festivo. La situazione è un po’ più complicata, e corrisponde di più al dire che c’è un’estensione dei giorni feriali per alcuni e un’estensione della possibilità del giorno festivo, ovviamente come simbolo, come dotazione di un tempo del consumo che è liberato dalla direzione del lavoro, che si espande, ma si espande per pochi. Certamente questo tempo del consumo è unilaterale: noi riconosciamo ormai il giorno festivo solo attraverso la semiotica del consumo.

E dunque c’è una qualità del tempo che si è impoverita prendendo possesso delle nostre feste (Luigino Bruni in un libro usa un’immagine su cui converrebbe riflettere insieme ulteriormente: «il capitalismo non è solo incompatibile con lo shabbat, è l’anti-shabbat»). Ma la critica qualitativa deve innescarsi a partire dalla priorità della critica materiale, che è ciò che sto provando a indicare. Il tempo festivo colonizzato dal consumo produce un’altra forma di alienazione che viene però soltanto dopo l’alienazione di un tempo di lavoro che non consente più il respiro del riposo. Ecco perché dire retoricamente che il tempo feriale si sta mangiando il tempo festivo per tutti è sbagliato. Se il tempo feriale si sta mangiando il tempo festivo di molti è perché il tempo festivo di pochi si sta estendendo. Dunque, anche questa povertà del tempo va letta – per essere compresa davvero – sotto la lente di una dialettica della diseguaglianza.


Sergio Labate insegna Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di  Macerata. La sua ricerca ha come focus privilegiati la filosofia del lavoro, il tema delle passioni come fonti dei legami sociali e la difesa della democrazia costituzionale nell’epoca del suo disincanto generalizzato. Tra le sue opere ricordiamo Passioni e politica pubblicato con Paul Ginsborg per Einaudi.

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