#Reportage EllePì – Quel che resta del lavoro – capitolo 1


Cher Marcel, ho trovato quel che tu cercavi.
Vieni in fabbrica. Te lo mostrerò io, il tempo perduto.
J. Ponthus, Alla linea

Il primo maggio sfiliamo per le strade di Marghera. La manifestazione è organizzata da diversi comitati locali e regionali in favore della popolazione di Gaza e contro l’industria bellica italiana, le politiche del governo Meloni e lo sfruttamento dei lavoratori: lo stabilimento di Fincantieri a Porto Marghera è l’ultima tappa del corteo. Ha smesso di piovere da poco e il vento spinge l’aria della laguna fino a qui, tra i viali alberati e le villette liberty, eredità incompiuta del progetto edilizio che negli anni Venti avrebbe dovuto guidare lo sviluppo urbanistico di pari passo con quello industriale. Camminiamo con centinaia di persone che cantano free Palestine e scandiscono slogan con i fischietti; tra questa folla rumorosa e colorata ci sono sindacalisti e vecchi operai con le insegne dei Cobas e dell’Unione Sindacale di Base, ragazzi e ragazze dei collettivi studenteschi con fumogeni e striscioni e molti lavoratori bangladesi. Le famiglie della comunità palestinese del Veneto e i Giovani palestinesi d’Italia, in mezzo alle loro bandiere, conducono il corteo.

Partecipante al corteo del Primo Maggio – Un uomo si fa strada tra i partecipanti del corteo.

Chiacchiero con il signor C., un anziano con il basco in tartan e le bretelle tese sulla pancia, ex pneumologo del vecchio ospedale di Mestre, che segue la manifestazione fino in piazza del Municipio seduto su una carrozzina elettrica: “I miei? Erano i tempi di Toni Negri e di Lotta Continua. Io partecipavo ai consigli di fabbrica della ex Breda, quella che poi è diventata Fincantieri, anche se provenivo da una famiglia borghese perché mio padre era un commerciante”. Le note arabe sparate al massimo dal furgone in testa al corteo si interrompono e gli esponenti dei comitati parlano al microfono tra gli applausi; camminano all’indietro, un occhio alla folla e uno al cavo collegato alla cassa, attenti a non inciampare. Una signora vestita di nero e con dei grossi occhiali da miope si allontana spaventata quando le rivolgo la parola. Poi ritorna e si scusa: credeva fossi della Digos. “Fincantieri è un ingranaggio del sistema militare dello Stato, si arricchisce con la guerra perché produce navi militari. Lo fa in altri stabilimenti in Italia, non qui, ma cosa cambia? E poi è una partecipata dello Stato. Sono contro la guerra e contro lo Stato, io. Sono anarchica”. Intanto il corteo si ferma per ricompattarsi e riparte ingrossato nelle sue fila da molti abitanti del quartiere, con le biciclette a mano e i bambini a cavalluccio sulle spalle.

Marghera ora è alle nostre spalle. Attraversiamo viale Fratelli Bandiera, la cerniera che scende da nord a sud e separa il centro abitato dagli 11.000 metri quadrati della zona industriale, un’area più vasta del centro storico di Venezia. È una linea di demarcazione che per un secolo ha alimentato l’immaginario di un mondo industriale a parte: il “pianeta in mare” raccontato da Andrea Segre, corpo estraneo e simbolo delle contraddizioni del progresso economico novecentesco, precipitato ai margini del delicato ecosistema lagunare di Venezia. Di qua era la città e di là le ciminiere coi fumi colorati e i bagliori infernali, da questa parte l’illusione di un quartiere costruito a misura d’uomo, immune alle sostanze tossiche che invece per decenni, in silenzio, penetravano nel terreno e si depositavano nei polmoni degli operai e delle loro famiglie, e dall’altra una fitta rete di rotaie, strade e banchine, e un esercito di 40.000 lavoratori sparsi tra gli impianti del petrolchimico, le raffinerie e i cantieri navali.

Verso Marghera – Manifestanti in cammino lungo le strade che portano alla zona industriale.

Il corteo imbocca via Alessandro Volta e quindi via dell’Elettricità, le strade che si infilano come denti di un pettine tra stabilimenti con il tetto a doppia falda ricoperti di edera e vecchie fabbriche recintate, con dei buchi neri al posto delle finestre. Ci fermiamo in fondo a via delle Macchine, un centinaio di metri prima del muro in mattoni che nasconde la banchina e il lato posteriore del cantiere navale. Sulla sinistra c’è l’enorme carro ponte con la scritta Fincantieri e dritto sullo sfondo giganteggia una nave da crociera in costruzione, circondata dai bracci di sollevamento delle gru. Mi siedo sul marciapiede, mentre finisce l’ultimo comizio e i manifestanti tornano in piccoli gruppi verso la stazione di Mestre. Non sono l’unico a osservare la nave: appoggiati alla ringhiera sull’altro lato della strada ci sono anche alcuni lavoratori bangladesi in infradito e camicia, le maniche arrotolate sulle braccia magre. Due ragazzi indicano un punto tra la prua e la terrazza scoperta della nave, gli altri alzano le mani: questa prospettiva insolita provoca straniamento anche in chi ci lavora dentro e la conosce molto bene. Siamo distanti, ma è comunque imponente: dev’essere lunga più di 300 metri, e conto almeno una dozzina di ponti con un’infinità di oblò e balconi ciascuno, piccole celle strette una di fianco all’altra e allineate in file lunghissime, come in quei condomini cinesi dove si ammassano centinaia di persone. Non ci sono operai di turno sulla nave. Potrei sbagliarmi, ma non vedo le loro sagome sui ponti, né i led dei faretti o le torce delle saldatrici. Del resto, oggi è il primo maggio.

Nel 1919 il cantiere navale Ernesto Breda è il primo ad abitare il sogno voluto dall’imprenditore Giuseppe Volpi: il rivoluzionario polo industriale in costruzione sulla gronda dei Bottenighi, l’area di 1.300 ettari affacciata sulla laguna di Venezia strappata dalla barena a colpi di vanga e piccone. Alla Breda seguono presto un’acciaieria, una fabbrica di concimi, una di vetro e coke e via via tutta una lunga serie di industrie pesanti, tanto che negli anni Cinquanta l’area si espande verso sud con una seconda zona industriale, il Petrolchimico, dominato dai grandi impianti che con le loro ciminiere, le pipeline, le cisterne e gli scambiatori lavorano gli idrocarburi per estrarne cloro-soda e cloruro di vinile. È il nuovo skyline dell’entroterra, il contraltare di quello offerto in lontananza dalla città di Venezia.

La prof.ssa Gilda Zazzara

La prof.ssa Gilda Zazzara

È Gilda Zazzara ad aiutarci a ricostruire l’evoluzione del cantiere e della classe operaia della Breda, oggi Fincantieri: professoressa di storia contemporanea all’Università Ca’ Foscari, da anni si occupa di storia del lavoro e dei movimenti operai a Porto Marghera. La incontriamo una mattina grigia nel suo studio affacciato sul cortile interno del dipartimento di studi umanistici; ci racconta i primi anni della Breda mentre la sua cagnolina dorme pancia all’aria nella cuccia sotto la finestra. Ogni tanto borbotta piano e agita le zampe nel sonno. Quando la Breda entra in attività nei primi anni Venti nel suo cantiere si realizzano piccoli navigli, corvette militari, si esegue qualche riparazione, e anche se tra le due guerre fatica a prosperare ha però una caratteristica che la contraddistingue da tutte le altre fabbriche di Porto Marghera, cioè quella di avere una forza lavoro altamente specializzata e radicata nel centro storico e nell’area mestrina, sindacalmente matura e con una forte identità di classe. È un’eccezione rispetto al paesaggio antropologico della classe operaia che lavora nelle altre industrie, formata in prevalenza da lavoratori dequalificati provenienti dall’entroterra rurale – i “metalmezzadri” – che a Porto Marghera arrivano in bicicletta dalle campagne comprese nel raggio di 30 km. La Breda è il cantiere navale dei comunisti: una delle poche realtà in cui si registrano tracce di opposizione durante il fascismo, che ha un ruolo attivo negli scioperi insurrezionali e nella difesa dei salari e che nel 1950, durante una lunga vertenza contro il licenziamento di oltre 500 lavoratori a causa di una grave crisi delle commesse, entra nella memoria collettiva della città quando le tute insanguinate di alcuni operai vengono esposte in piazza San Marco in seguito a una violenta repressione della polizia.

Le crisi produttive che a fasi alterne segnano il percorso del cantiere navale spingeranno la Breda in mano pubblica prima attraverso il FIM (Fondo per il Finanziamento dell’Industria Meccanica) e poi tramite l’EFIM (Ente partecipazioni e Finanziamento Industria Manifatturiera) nel 1962. Nel 1984, dopo un passaggio in Italcantieri, verrà definitivamente assorbita in Fincantieri. Sullo sfondo intanto scorrono le stagioni delle grandi lotte operaie, scoppia la crisi petrolifera, si fa strada la consapevolezza dei danni provocati all’ambiente e alla salute. Tramontano l’epoca del modello produttivo fordista e il tempo delle mobilitazioni sindacali, fino ad arrivare allo smantellamento e al ridimensionamento degli impianti di produzione, conseguenza devastante del fallimento industriale. Anche se a Porto Marghera resterà un panorama di rovine – quello che Cesco Chinello definiva un “deserto avvelenato di archeologia industriale” – il cantiere navale invece sopravvive. Anzi, si muove in controtendenza: è il secondo fattore che rende Fincantieri un’eccezione rispetto al contesto circostante.

Lo skyline di Marghera – Vista delle ciminiere e delle strutture industriali che caratterizzano il paesaggio.

Se infatti tutto il resto crolla, Fincantieri non solo scongiura il pericolo di una deindustrializzazione ma diventa sempre più competitiva rivoluzionando produzione e modello organizzativo con l’introduzione del metodo “toyotista” nel 1973, la filosofia produttiva ispirata alla cantieristica giapponese che adotta una produzione per blocchi e moduli, assemblati ora all’interno delle nuove officine prima di essere allestiti in bacino. È un processo che assesta un colpo duro alla classe operaia: con l’espulsione di una generazione storica di maestranze tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta e con i massicci prepensionamenti dovuti alla legge sull’amianto negli anni Novanta gli organici vengono ridimensionati e il sistema delle professionalità distrutto. Gilda si sofferma su questo punto: “È una destrutturazione completa della forza lavorativa, quello che era il simbolo della ex Breda: la classe operaia perde la sua identità, si spezza la trasmissione tra i vecchi lavoratori e le nuove generazioni. Nella storia operaia sindacale l’anzianità di fabbrica è sempre stato un elemento fondamentale per la costruzione di processi di soggettivazione. Adesso scompare”.

Negli anni Novanta avviene il cambio di passo definitivo: da un lato si cominciano a costruire le grandi navi passeggeri della crocieristica, dall’altro la base operaia viene sostituita attraverso il ricorso massiccio alle ditte in appalto e a una nuova forza lavoro: maestranze a bassa specializzazione, poco o per niente sindacalizzate, provenienti in prevalenza dal sud Italia e dall’est Europa, e poi soprattutto dal Bangladesh.

Cantiere in corso a Fincantieri – Veduta del cantiere navale con operai che escono dal lavoro.

Oggi Fincantieri è il più grande gruppo navale in Europa. Il cantiere di Porto Marghera, schiacciato tra i fasci di binari e il deserto industriale alle sue spalle, è l’ultima immagine che lascia di sé la terraferma veneta a chi è diretto verso la laguna, e ne rappresenta di fatto la porta di ingresso, come sa chi raggiunge Venezia in treno. Eppure continua a mostrarsi come un oggetto illeggibile e altro rispetto al panorama circostante. Forse perché la destrutturazione degli ultimi decenni non ha riguardato solo la forza lavoro, ma anche il suo scollamento rispetto alla città stessa, come dimostra l’estraneità dei lavoratori al contesto urbano. “Penso che la razzializzazione della forza lavoro sia ciò che in questi anni ha reso questi uomini paradossalmente invisibili ci diceva Gilda nel suo studio – e tutte quelle biciclette fuori dal cantiere, tutta quella distesa di biciclette ti ricorda il simbolo della classe operaia di Marghera delle origini, una classe operaia povera. I lavoratori bangladesi non sono percepiti né in continuità con la storia del quartiere né come una componente del benessere o dell’identità della città, una città che ha rimosso l’orizzonte delle fabbriche. Sono assolutamente un corpo estraneo, illeggibile, portatore di segni disturbanti, percepito come un pericolo e per questo espulso”.

Nel frattempo, quando ormai l’esternalizzazione del lavoro ha spinto il rapporto tra lavoratori diretti e indiretti alla proporzione di 1 a 4, il meccanismo della paga globale applicato dalla stragrande maggioranza delle ditte appaltatrici in Fincantieri è finito al centro di un’inchiesta che nel giugno del 2023 ha rinviato a giudizio 26 persone tra dirigenti e funzionari Fincantieri e rappresentanti di diverse aziende. Il sospetto e la preoccupazione, come riporta l’esposto della FIOM da cui sono partite le indagini della magistratura, è che il sistema degli appalti rappresenti “una moderna e avanzata forma di caporalato industriale”. L’aspettativa invece è che il processo cominciato in questi mesi, il più importante che abbia mai coinvolto Fincantieri, possa mettere in discussione il sistema di sfruttamento della forza lavoro basato sulla paga globale all’interno del suo stabilimento, ponendo le basi per una ritrovata dignità della classe operaia.


Federico Rigamonti (1990) è assegnista presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Ca’ Foscari a Venezia. Dopo un dottorato di ricerca in letteratura comparata ha frequentato la scuola Jack London. Questo è il suo primo reportage.

Sofia Gastaldo (Padova, 2003) è una fotografa e filmmaker. Nel 2024 si diploma alla scuola di letteratura e fotografia Jack London e viene selezionata per lo Speciale Diciottoventicinque a Fotografia Europea con il progetto “Sibyllae”. Attualmente sta conseguendo la laurea triennale in Scienze Sociologiche presso l’università di Padova. E’ co-fondatrice del collettivo di artisti e curatori “Shapeless Gallery”.


Le immagini documentano la manifestazione del primo maggio a Marghera, evidenziando la partecipazione di diversi gruppi: lavoratori, studenti, famiglie palestinesi e sindacalisti. Raffigurano momenti salienti come i cortei tra le strade del quartiere, i comizi e l’arrivo alla zona industriale di Porto Marghera, con lo sfondo delle strutture di Fincantieri e del paesaggio industriale.


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