Reportage EllePì – Sulle tracce del lavoro che resiste – Viaggio sui sibillini – Amandola, terza parte


Da quel giorno stiamo attenti anche alla pioggia. Sai, anche la pioggia può indicare l’arrivo di un terremoto”, così aveva detto Catharina guardando il cielo farsi plumbeo, mentre sedevamo nel giardino antistante il laboratorio dove lei e il marito di tanto in tanto ancora producono qualche foglio di carta. É rimasto miracolosamente intatto il laboratorio. La casa invece no, i resti giacciono severi poco più in basso. Li si scorgeva alle spalle di Catharina, mentre aiutava Anan, il figlio, a riporre i polverosi album di famiglia che ci aveva appena mostrato in uno scatolone altrettanto polveroso, sul cui fondo la polvere si impastava al pulviscolo giallastro dei detriti. Mentre il sole calava e percorrevo la strada per tornare all’abitazione che il comune di Amandola ci ha messo a disposizione, infilandomi cauto fra le curve oltre le quali si svela di volta in volta uno nuovo segmento del profilo dei Sibillini, Alice era silenziosa. Le emozioni erano contrastanti. Le ore passate in compagnia della famiglia di Anan erano scorse, rapide e piacevoli, fra un bicchiere di vino e l’altro, intramezzati dagli esilaranti racconti di Natan, il padre, delle bravate commesse durante i suoi anni americani e dai commenti caustici della moglie, pronunciati con quella sua spigolosa inflessione teutonica, stemperata dal tono tanto sommesso, a tratti bisbigliato. Del terremoto ce ne eravamo ad un certo punto quasi dimenticati, tanto che Alice non aveva scattato nemmeno una foto. Del motivo per cui eravamo lì me ne ero però bruscamente ricordato mentre camminavo a fianco alle macerie della casa, magnifico presagio del sublime impeto distruttivo che colpì queste terre quella notte d’estate di sette anni fa. Mi chiesi se Alice stesse pensando lo stesso. Dai Kareen ci torneremo stasera, per sfruttare la luce calda e quasi rarefatta che il tramonto dalla collina del Night Cloud (così si chiama lo studio) ci ha dimostrato di saper offrire.

Le informazioni da processare sono molte, similmente le emozioni da governare. Il sisma è stata una presenza sinora silente, presentatasi, epifanica, solo di tanto in tanto. In una parola inattesa, un sussulto rapido, un rudere dietro la curva, una targa commemorativa illuminata da un taglio di luce svoltato l’angolo di un vicolo. Dai Kareen però la presenza l’avverto diversamente, sebbene non ne abbia ancora capito bene il perché. Eppure, Catharina e Anan, che negli incontri precedenti erano stati i più loquaci, non ne parlano spesso. Li abbiamo conosciuti poche sere prima all’Osteria del Lago, poco fuori le mura. Il contatto di Anan l’avevo avuto senza nemmeno cercarlo, durante una conversazione casuale all’Elephant pub di Londra avuta qualche settimana prima davanti ad una pinta di Camden Hell con una cara amica conosciuta fra i banchi dell’università. Emigrata nelle Marche con la madre dal Venezuela in tenera età, aveva frequentato con Anan il liceo artistico di Sant’Elpidio. “Devi parlare con lui, con il terremoto hanno perso tutto. Ricordo ancora quella volta che ha suonato il piano fra le macerie della loro casa, da brividi…”. All’Osteria del Lago si era presentato con la madre, Catharina, che aveva subito ordinato con impeccabile accento tedesco una Weiss media, confessando involontariamente le sue origini. Ci aveva raccontato di come avesse conosciuto Natan, il marito, oltre quarant’anni prima in Olanda, durante un convegno sulla carta, la passione che sin dall’inizio li aveva uniti. Natan era in trasferta dal Kibbutz nel quale viveva in Israele, paese nel quale era nato e dove era tornato dopo gli anni spesi all’Accademia di belle arti di Los Angeles.

L’amore era stato fulminante, tanto da convincere Catharina a trasferirsi, dopo solo un anno di relazione a distanza, con lui nella terra promessa, dove qualche anno dopo sarebbe nato Anan. Dopo sette anni nel Kibbutz i Kareen, spinti dalla delusione di Natan sviluppata nei confronti del Kibbutz, responsabile di aver tradito e disatteso i suoi ideali socialisti, avevano deciso di trasferirsi. La Germania, complice il suo passato recente, non era chiaramente un’opzione percorribile. La California era troppo lontana dal Kibbutz, in Francia c’erano dei parenti, ma il francese non lo parlavano. Catharina però masticava un po’ di italiano, appreso durante i mesi trascorsi fra Siena e Firenze studiando restauro. “Allora gli ho detto, guarda la Germania è qui, Israele è lì, l’Italia più o meno è in mezzo. Possiamo provare lì”, racconta Catharina sorridendo. La scelta era ricaduta allora sul Bel Paese. “Avevamo sentito parlare delle Marche. Questa è la zona del futuro, ci siamo detti, è bella come la Toscana, ha tanto da offrire, ma non è ancora piena di turisti. Proviamo, facciamo un viaggio”. E così erano finiti ad Amandola. Allora vi era un’agenzia immobiliare che ci aveva visto lungo e offriva i propri servizi in lingua inglese, ci racconta Catharina, e di quella casa in collina lei e il marito si erano innamorati subito. La parabola cosmopolita dei Kareen trovava dunque quiete nelle campagne marchigiane, dove i tre si trasferirono dopo che il piccolo Anan aveva speso i primissimi anni della sua infanzia tra il kibbutz e un asilo a Katmandu. Poco dopo sarebbe nata Layla, la secondogenita. Mentre guido oramai agile fra le curve verso il Night Cloud Studio provo a figurarmeli i Kareen, alle prese con le insegnati nepalesi del figlioletto, o ancora coi serpenti nel villaggio di Bangalore dove avevano trascorso una settimana a studiare i metodi di utilizzo delle foglie di banano per la produzione di fibre di cellulosa per le loro carte, o ancora mi immagino Natan in un diner della California che litiga col proprietario dopo essersi ingozzato al buffet all you can eat. Mi immagino quali altre fantastiche storie Natan e la moglie ci racconteranno, con il loro inglese impeccabile, inframezzato da brevi scambi di parole talvolta in italiano, alle volte in tedesco, non di rado anche in ebraico.

Al nostro arrivo Anan ci attende in cima alla collina, lo scorgo mentre agita la mano in segno di saluto da dietro le rovine della casa. Le macerie sono in realtà il risultato dall’azione combinata della natura e dell’uomo, poiché la struttura era pericolante e aveva dovuto essere abbattuta. “I lavori si sono interrotti subito però” ci aveva detto Catharina la prima sera all’Osteria del Lago “le imprese qui sono poche e devono giostrarsi venti, venticinque progetti l’una”, aveva continuato con un mezzo sorriso rassegnato. “Si presentano una volta al mese per un giorno, e dicono che torneranno l’indomani. Domani, domani, sempre domani… e poi tornano dopo un mese”. Risaliamo la collina aggirando i detriti, in cima Natan ci attende nelle sue bretelle incrociate color cremisi. Indossa una maglia rossa con il colletto bianco, e sta tagliando il prato con metodica quiete, il passo rallentato dall’età. Natan è un omone anziano, sulla settantina, il capo calvo a cui fa da contraltare una foltissima e bianchissima barba, che a tratti gli conferisce le sembianze di San Nicola. A completare il tutto un volto simpatico ma severo, e due grandi occhi verdi. Quando si accorge della nostra presenza il faccione si allarga in un sorriso caldo e genuino. “Hello my dear friends!”. Per qualche ragione mi aveva preso sin da subito in simpatia, e non aveva mai mancato di dimostrarlo, facendomi a fasi alterne bersaglio e complice delle sue freddure caustiche, a cui la moglie rispondeva puntualmente con uno sguardo misto di rassegnata tenerezza e divertita complicità. “He really likes to embarrass all of us when people come over”. Mentre mi intrattengo con Anan e Catharina arriva Layla. È molto bella ed ha i capelli rossissimi, il volto simpatico del padre. Parla un italiano che di tanto in tanto si inflette in un subitaneo accento inglese, e spesso traduce fin troppo letteralmente espressioni idiomatiche di chiara provenienza anglofona. Vuole trasferirsi a Milano per studiare fotografia, e mentre mi tempesta di domande riesco chiaramente a scorgere nei suoi occhi una fervida ed avida curiosità che la spinge lontana con la mente.

La serata scorre piacevole, fra un calice di vino bianco marchigiano e l’ennesima barzelletta di Natan. Quando la luce si fa dorata al punto giusto, Alice inizia a scattare, ritraendo prima Natan, che si diletta squisitamente nel punzecchiarla, disobbedendo alle sue precise indicazioni sulle pose da assumere. Poi la famiglia al completo, componendo un grazioso quadretto dove la prole e Catahrina si dispongono ordinati attorno a Natan, che invece posa dalla sua amata sedia in paglia, fattosi tutto d’un tratto severo, forse oramai entrato nella parte. Si è fatto buio e rientriamo nel laboratorio. Si tratta di un’ex stalla, rimasta miracolosamente in piedi dopo il sisma. Il laboratorio è il punto nevralgico della vita dei Kareen. “È il punto di riferimento che ci è rimasto. La vita è ogni giorno lì, in quel laboratorio. Se non ce l’avessimo sarebbe un bel discorso diverso” ci aveva detto Catharina la prima sera. Ed in effetti entrando si ha proprio l’impressione che quelle quattro mura racchiudano il microcosmo di una famiglia che ha conosciuto fortune alterne, navigato continenti, frequentato ogni forma d’arte, collezionato ogni sorta di oggetto. Se fuori da lì, pochi metri a valle, giacciono i resti della casa, là dentro paiono giacere i resti della loro storia familiare, e nel vivere gelosamente e schizofrenicamente quei pochi metri quadri di terreno calpestatile ogni membro della famiglia pare volerli custodire gelosamente, forse nel timore che possano disperdersi anch’essi. All’interno di quello spazio, che si sviluppa in un’unica stanza, ogni membro della famiglia sembra essersi nel tempo ritagliato il proprio angolo, disponendosi ordinatamente in quei pochi metri quadri, incastrandosi fra il tavolo della cucina ed il lavello, fra il pianoforte e la scrivania, fra la pressa idraulica per la carta e la libreria.

L’elevatissima concentrazione di oggetti e persone non tradisce però alcun senso di horror vacui, ogni elemento rivendica il proprio posto in un ordine necessario e mai contingente. L’unica presenza superflua è forse la nostra. Lasciamo il Night Cloud Studio dopo una pizza in compagnia ed una partita a Cards Against Humanity, che cancella definitivamente ogni traccia rimanente di diffidenza reciproca ed al contempo conferma come l’umorismo pungente che aveva sfoggiato spesso Natan sia in realtà affar di famiglia, al pari quasi della carta d’artista. Ci dirigiamo verso la macchina costeggiando un’ultima volta i resti della casa, che al buio appaiono come una massa nera dal profilo frastagliato. Realizzo finalmente il perché dai Kareen la presenza del sisma in quei giorni l’avessi sempre percepita diversamente. Se ne era parlato sempre poco, ma era stato il convitato di pietra ad ogni nostra tavola. Una leggera vibrazione che correva nell’aria, nella voce grave di Anan, nei gesti metodici e soppesati di Natan, fra i sospiri silenziosi di Catharina, nello sguardo curioso e suggente di Layla, fra i fogli di carta impilati sul tavolo nel laboratorio. L’ultimo pensiero della giornata, mentre sono nel letto a riordinare gli appunti, corre proprio ai Kareen, alle ore passate in questi giorni fra il giardino ed il laboratorio, entrando progressivamente nell’intimità di uno spazio famigliare dove non vi era luogo alcuno per nasconderla. E mi ritrovo a pensare a quanto straordinaria e sincera sia stata l’accoglienza di una famiglia che da anni vive senza la propria casa, lontano da tutto e da tutti.



Davide Lhamid è un fotografo documentarista originario della provincia di Varese. Formatosi fra Milano e Londra, dopo una laurea triennale in Sociologia, si specializza nella fotografia di reportage, incentrando la sua ricerca su tematiche sociali, con una particolare attenzione alla questione migratoria.
Alice Zorzin (1996) è una fotografa documentarista con base nel Nord Italia. Dopo la laurea in storia dell’arte contemporanea, decide di dedicarsi completamente alla fotografia. Nei suoi progetti personali Zorzin analizza il rapporto tra uomo e natura e narra di questioni climatiche e ambientali. Attualmente sta portando avanti due progetti a lungo termine riguardanti, il primo, i giovani nati, cresciuti e che hanno deciso di restare a vivere in montagna e, il secondo, un parassita che sta distruggendo le foreste alpine e la sua economia.

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