#BlogEllePì – Ansia sociale e lavoro. Cosa si può fare nei contesti organizzativi per aiutare le persone?

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È comune, al giorno d’oggi, sentir parlare di “ansia sociale”, ma cos’è realmente questo muro apparentemente insormontabile? In letteratura (Grimaldi, 2008), l’ansia sociale viene presentata come una sindrome cognitivo-affettiva che appare in circostanze in cui il soggetto entra in contatto con altre persone, contesto che causa in lui inquietudine e terrore. È quanto mai sottile tuttavia il confine tra una condizione non clinica, quale la semplice timidezza, e una vera e propria condizione patologica che si manifesta come Disturbo d’Ansia Sociale e Disturbo Evitante di Personalità. Una persona con un Disturbo d’Ansia Sociale vive quotidianamente con il timore del relazionarsi all’altro, alimentato dalla paura di un giudizio, di una critica, del confronto e dell’affronto. Cosa succede nel lavoro?

Quando c’è sicuramente genera limitazioni e problemi in ambito lavorativo: l’ergofobia, dal greco ergon (lavoro) e phobos (paura) è una costante preoccupazione e angoscia, sicuramente spropositata, nei confronti del proprio lavoro e delle mansioni che esso comporta, un vero e proprio disturbo d’ansia suscitato dalla paura per il futuro, da ciò che non si conosce ancora (Cavallini, 2022). L’ansia d’altro canto può coinvolgere ogni ambito della nostra via quotidiana: lavorativo, scolastico, sociale, familiare; essa si accompagna a sintomi psicosomatici che rendono disagevole qualsiasi circostanza, offuscano la nostra razionalità e sagacia, alterano la percezione della realtà e trasformano in un grande ostacolo anche ciò che potrebbe essere un’occasione di crescita e rivalsa. Insomma, non ci si sente mai abbastanza sicuri e nessun apprezzamento è sufficiente a cambiare questo stato d’angoscia opprimente.

Ritornando al lavoro, quel che è importante sapere, è che stati riconducibili all’ergofobia possono sorgere anche da una forte situazione di stress nel contesto lavorativo, provocato da una condizione di Burnout: una vera e propria sindrome da stress correlata al proprio lavoro. Come noto, lo stress lavoro-correlato è un fenomeno che colpisce principalmente i lavoratori che sono a stretto contatto con la persona: psicologi, pedagogisti, assistenti sociali, operatori sanitari e tanti altri; tuttavia, negli ultimi anni risulta essere un fenomeno altrettanto frequente in altre professioni quali poliziotti, avvocati, insegnanti. Tra i motivi principali dell’esordio di tale sindrome vi è il sovraccarico di lavoro, la mancanza di controllo e il senso di impotenza percepito.

Sono numerose le implicazioni in campo organizzativo dello stress lavoro-correlato, una delle conseguenze più frequenti è l’assenteismo: il forte esaurimento emotivo che deriva dalla propria professione fa scaturire quella voglia di scappare, di evadere dall’ambiente lavorativo che non suscita più alcun interesse, ma solo frustrazione e angoscia. Una situazione questa che genera effetti negativi, sia per la vita personale del soggetto, aumentando il rischio di abuso di sostanze stupefacenti o addirittura di suicidio, sia per la vita lavorativa, come per esempio prestazioni e comportamenti non adeguati. Un ingestibile sovraffaticamento nel contesto lavorativo, infatti, definisce una giornata di lavoro per niente produttiva e peggiora la condizione di salute del lavoratore con stati di depressione, irritabilità, cefalea, aggressività, attacchi di panico, etc. Il clima di lavoro peggiora, le relazioni con i colleghi diminuiscono, il rapporto con i capi può prendere curvature tali da marginalizzare la persona e il suo contributo.

Cosa possono fare imprese e manager per evitare l’insorgere di tali condizioni? Il tema è quanto mai attuale soprattutto in considerazione della crescente pressione sui risultati che provoca disagi non solo ai collaboratori ma anche ai manager. Ansia, stress, voglia di fuga sono indicati come sintomi di ambienti di lavoro che diventano «tossici» secondo alcune ricerche empiriche secondo le quali il peggioramento della qualità delle relazioni al lavoro è una delle cause principali anche della decisione di lasciare l’impiego da parte di milioni di persone, fenomeno conosciuto come la Great Resignation. Nei luoghi di lavoro è importante allora che l’attenzione verso questi aspetti cresca anche attraverso adeguati programmi di sensibilizzazione e formazione. Manager e supervisori dovrebbero considerarli ricorrendo anche all’aiuto di figure di supporto come quella dello psicologo, in grado di realizzare dei programmi di assistenza all’interno dell’impresa che possano aiutare la persona a gestire efficacemente il suo lavoro e l’ansia così da ridurre il rischio di danni per se stesso, per l’azienda, ma anche per i suoi collaboratori e colleghi. Insomma, teoria e pratica, ricerca ed esperienza suggeriscono l’importanza di adottare strategie di ascolto partecipe e reciproco, capaci di dare cittadinanza a tutti e sollecitare la ricerca di un punto di incontro che dia voce anche ai più “deboli”.


Riferimenti:
Cavallini B., Ergofobia: quando a far paura è il proprio lavoro, IlSole24ore, 4 maggio 2022
Grimaldi P., Ansia sociale. Clinica e terapia in una prospettiva cognitivista integrata, FrancoAngeli, 2008.


Alessia Franzese
Neolaureata magistrale in Valutazione del funzionamento individuale in Psicologia clinica e della salute presso l’Università degli Studi di Perugia e tirocinante al servizio di Psiconcologia dell’AUCC (Associazione Umbra per la lotta Contro il Cancro) all’interno dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia. Al centro del mio interesse c’è la persona, l’amor proprio e per l’altro, i beni comuni, la possibilità di esprimersi liberamente in privato e in ambito lavorativo per il pieno raggiungimento dei propri obiettivi.

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