#Blog EllePì – Meta e Twitter (ma non solo): licenziamenti in-sostenibili?

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Tira una brutta aria per l’industria tecnologica (ma non solo). L’ha colpita una crisi provocata in generale, par di capire, dai deludenti risultati in termini di utili, al di sotto delle aspettative. Allora, come quasi sempre succede, non resta che efficientare tagliando i costi, a cominciare da quello del lavoro. Ciò significa riduzione di organici e blocco delle assunzioni. La via drammaticamente più facile, un’esternalità negativa scaricabile su quanti hanno aiutato quelle stesse imprese a creare valore.

Lo stato dell’arte
I fatti sono noti. Meta di Mark Zuckerberg (la nuova identità data a Facebook, proprietaria anche di Instagram e WhatsApp) e prima ancora Twitter hanno mandato via dal 13% al 50% circa dei collaboratori. Leggiamo che anche Amazon si sta preparando a sfoltire un po’ le maestranze: 10.000 collaboratori che rappresentano, si fa per dire, solo l’1% degli organici della multinazionale. Nel frattempo però Jeff Bezos annuncia che, insieme alla compagna, darà in beneficienza una fetta impressionante del proprio patrimonio. Una linearità impeccabile: due soggetti distinti, due comportamenti diversi. Tutto nella norma. Non divaghiamo e ritorniamo ai fatti. La Silicon Valley insomma licenzia. Le modalità che sceglie per farlo sono smart, si direbbe, pienamente consone al digitale che avanza, ma poco civili. Ho usato un eufemismo perché in realtà sono del tutto irrispettose del lavoro, molto lontane dalla strada maestra della dignità, a partire da quelle delle persone che lavorano. Elon Musk il visionario ha così annunciato i licenziamenti via social e poi li ha comunicati via mail. Un articolo racconta di dipendenti che hanno appreso di essere stati licenziati dal blocco degli account non più funzionanti, altri invece sono stati svegli tutta la notte per capire cosa stesse succedendo. I social si sono riempiti così di sfoghi di dipendenti e della frustrazione che li ha colpiti.

Le motivazioni
Per quali ragioni Facebook e Twitter (tra le altre) licenziano? Le motivazioni sono diverse. Mark Zuckerberg giustifica i licenziamenti imputandoli, in un messaggio ai dipendenti, a una cattiva valutazione della crescita dei ricavi (al di sotto delle aspettative) che ora impone di cercare più efficienza e di questo si assume direttamente la responsabilità. Elon Musk, invece, vuole gestire le “pressioni finanziarie” che derivano dall’ingente indebitamento che ha dovuto fare per acquisire l’azienda e compiere così “il più grande leveraged buyout di una società tecnologica nella storia”. Ora vuole “rientrare”, come si dice in gergo.
Però c’è una domanda che, se fosse posta, creerebbe un qualche imbarazzo. A costo di passare per ingenui e ignoranti la pongo lo stesso: perchè Musk ha comprato (anche) Twitter? A quale strategia di business è legata la volontà di diventarne il proprietario? Perché la precedente proprietà non licenziava? Massimo Gaggi scrive: «Elon Musk è un caso senza precedenti nella storia del capitalismo. Perde anche lui decine di miliardi di dollari, ma il suo potere continua a espandersi: dall’auto allo spazio, dall’energia pulita alla geopolitica e, ora, anche alle reti sociali, fino a lambire il mondo dell’informazione». Val la pena annotare, però, che Amazon sta facendo utili anche se in calo rispetto allo scorso anno. Nel terzo trimestre ha realizzato profitti pari a 2,9 miliardi di dollari, contro i 3,1 nello stesso periodo del 2021.

Alcune domande
Interrogarsi sulle ragioni dei licenziamenti pone numerose domande. È accettabile che un’impresa, perché realizza meno profitti del previsto, licenzi (come sembrerebbe il caso di Meta)? Se fosse accettabile sarebbe come dire che i lavoratori e le loro famiglie sono nelle mani della fame di utili dell’imprenditore. Vi saranno allora quelli più fortunati e quelli meno fortunati; insomma la serenità di tanti lavoratori degrada a variabile dipendente del tasso di ingordigia (meglio: tasso di appetenza di profitti) dell’imprenditore. È accettabile che un’impresa venga comprata da una persona e i lavoratori sacrificati sull’altare del suo desiderio di potere (è il caso di Twitter)? Molti penseranno che sto ponendo domande “fuori dal mondo”, me ne rendo conto, perché la risposta è ovvia: «certo che è accettabile, il libero mercato e le sue regole consentono tutto ciò a prescindere». A prescindere cioè dalle implicazioni sociali, a prescindere dalla sofferenza che si provoca a persone, famiglie, comunità. L’importante, infatti, è che non venga limitata la libertà personale di un imprenditore che deve avere le mani libere.

Una domanda (questa volta) pertinente
Riflettendo c’è però una domanda pertinente, che torna urgente e attuale: «Quale funzione ha l’impresa?» Questa se la stanno ponendo da anni le stesse imprese. «What are companies for» è la domanda che si poneva nell’estate dl 2019 The Economist. Questa volta viaggio sul sicuro. Larry Fink, il CEO di Black Rock, il fondo di investimenti più imponente al mondo, scrive da anni che profitti e scopo dell’impresa (inclusiva e sostenibile) devono andare insieme. Val la pena annotare allora, dopo aver magari incassato il giudizio ingenuità per le domande avanzate, che le risposte fornite sono agli antipodi dei principi che ispirano il paradigma della sostenibilità e di un’impresa sostenibile. Si sappia. Sarebbe inaccettabile scoprire allora che queste imprese siano anche quelle che affermano di aver adottato la sostenibilità come faro delle loro attività.

L’impresa sostenibile abita altrove
Sono andato intanto a controllare se Elon Musk e Mark Zuckerberg fossero tra i 181 CEO firmatari dello statement sullo scopo dell’impresa del 2019 adottato dalla Business Roundtable, quello nel quale i firmatari si impegnano «a guidare le loro aziende a vantaggio di tutte le parti interessate: clienti, dipendenti, fornitori, comunità e azionisti». Non ci sono per fortuna. Almeno in questo sono coerenti. Non credono che l’impresa abbia o debba avere una funzione diversa da quella di massimizzare il valore per gli shareholder e quindi si comportano di conseguenza. Possiamo dire allora che la gestione di Twitter e Facebook è insostenibile?

Imprese e imprenditori: un enigma
Ha proprio ragione Giuseppe Berta quando scrive che l’imprenditore è un «enigma», associando questa verità al destino dell’impresa. È proprio difficile afferrarne i contorni. Quale benessere ci si può aspettare da questa strategia di espansione e di allargamento del potere lungo una rete sempre più aggrovigliata di business? Come riuscire a districarsi tra la narrazione e la dura realtà dei comportamenti? C’è un’ultima questione allora, anche questa della serie magari delle sottolineature ingenue, ma almeno fondata su un dato ampiamente dimostrato da numerose ricerche empiriche: questi primi venti anni del secolo stanno registrando un processo di concentrazione straordinario della ricchezza e del potere economico in pochissime imprese-piattaforme.

Le ultime (domande)
È ancora libero mercato?
La concorrenza esiste ancora o è un retaggio del secolo scorso? Cosa vogliono ottenere davvero gli imprenditori? Potranno continuare a svincolarsi, grazie alle loro innovazioni radicali che penetrano sempre più la vita di ciascuno, dalle regole che consentono a una comunità di star bene? Fino a quando?


Gabriele Gabrielli è presidente della Fondazione Lavoroperlapersona, è professore a contratto presso l’Università Luiss Guido Carli dove insegna Organizzazione e gestione delle risorse umane. Executive coach, consulente e formatore, il suo ultimo libro, di cui è curatore, si intitola Attraversare la distanza (FrancoAngeli, 2022).

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