Un passo dopo l’altro: viaggio a piedi lungo la via Emilia – 4a tappa: Sant’Ilario D’Enza – Piacenza


“Addio Ivan, ci vediamo presto” ore 9 del mattino, direzione sant’Ilario D’Enza. Mentre cammino la statale si fa sempre più stretta, il paesaggio è desertico, pochi alberi lo circondano e i volatili mi fanno compagnia, mi fa pensare a Thoreau, quando affermava: “Amo una pubblica via: poche viste ci sono che più mi piacciono; questa ha posseduto la mia immaginazione fin dall’alba dell’infanzia, quando la linea che spirava, vista quotidianamente in distanza, su un nudo pendio oltre lo spazio che i miei piedi avevano varcato, era come una guida verso l’eterno, o almeno a cose sconosciute e senza termine, la strada, aveva una specie di magia prospettica, una seduzione dell’ignoto”. Lungo la strada prima mi fermo sdraiandomi sotto l’ombra offerta da pochi arbusti lungo la statale. E appena più avanti, una volta riconquistata la strada, sotto il sole cocente, eccomi penetrare un nuovo scenario: grandi case dismesse e abbandonate, industrie e aziende, e un fiume, ridotto ormai a un falso ruscello, che contiene una grande quantità di girini, dove mi fermo per lavarmi la faccia; la poca ombra che trovo fra gli alberi di ulivo sparsi attorno, un grosso burrone e dense siepi.

Percorro la strada per arrivare al paesino più vicino, Salsomaggiore Terme, lungo la statale un pittoresco e colorato casolare mi incuriosisce, decido di entrarci dentro. Intorno a me, alberi da frutto e una distesa verde, dalla porta un’anziana signora mi saluta, intravedo i suoi capelli sottili e bianchi, le spalle curve una sciarpa color arancione e blu, una sigaretta in mano, Marlboro Gold. Mi avvicino timidamente e mi chiede se ho bisogno d’aiuto, entro nella sua casa.  Atmosfera liturgica, una grande sala disordinata e crocifissi ovunque, teste di madonne appoggiate su una superficie polverosa. Angela, la proprietaria, mi intrattiene in chiacchere e mi offre del vino, iniziamo un gioco con le carte, emozionata comincia a raccontarmi la sua storia.

Angela viveva in una grande città, Milano, all’età di 25 anni dopo essersi laureata in Cooperazione internazionale decide di sistemare un vecchio podere di famiglia abbandonato per farlo rinascere e viverci dentro, insieme al suo compagno Edoardo. A Salsomaggiore Terme, tra le colline, recuperano il vecchio podere di famiglia seguendo un unico obiettivo: iniziare una formula di ospitalità innovativa, al cui centro ci sono le relazioni e la condivisione e creare nuove coltivazioni di frutti antichi autoctoni emiliani. “Il nostro progetto nasce nel 1987, non avevo ancora le idee chiare su quello che volevo fare nella vita, così ho avuto  l’opportunità di occuparmi del vecchio casolare di famiglia, disabitato e in fase di abbandono dagli anni ‘60. Io e mio marito volevamo cambiare del tutto vita”, racconta compenetrata, allontanarci dalla vita frenetica della città, volevamo un tempo e uno spazio diverso, abbiamo iniziato a far lavori di pulizia ogni fine settimana percorrendo Milano – Salsomaggiore Terme, il casolare cadeva a pezzi, l’erba era altissima e c’erano animali selvatici ovunque”.

Finalmente, nel 2005 hanno completato i lavori di ristrutturazione. Ma solo un anno dopo hanno iniziato a far crescere le prime coltivazioni di piccoli frutteti, frutti antichi autoctoni emiliani. “Attualmente mi occupo della cura e della raccolta frutti, dell’ospitalità di pellegrini e organizzazione di laboratori artistici, mio marito invece si occupa della manutenzione e della cura delle galline e maiali” dice, “Siamo molto felici da quando viviamo qui, la bellezza dell’aria pulita, l’ampiezza del paesaggio circostante, i nostri alberi e i nostri incontri, ho tutto ciò che amo, non serve nient’altro.” Discorriamo fino alle 9 della sera, dopo mi sento molto stanca, ma entusiasta per questo incontro, decido di salutarla e ringraziarla per la cena. Lascio la casa della signora Angela prima dell’alba, raggiungo il luogo della mia prossima sosta, a pochi chilometri per rifornirmi di cibo e acqua. Sant’Ilario D’Enza, un paesino costellato da murales e colori, questa tratta è una delle più lunghe, quindi decido di fermarmi solo pochi minuti, la destinazione finale è Parma.

Il mio cammino inizia fra ombre di castagneti deliziosi, penso che sia davvero piacevole camminare nelle prime ore della mattina, lungo la strada sparuti gruppi di case o piccoli borghi abbandonati. Costeggio il letto di un torrente; mentre proseguo salendo e cercando di ritrovare la Via Emilia, le rocce mi appaiono sempre più vicine. La mia strada ora è sull’altra parte del ruscello, che sembra non finire più, tra alberi fioriti molto alti, e maestosi tronchi che pendono dalle rocce, piccoli e chiari rigagnoli. “Ho un senso di solitudine e mistero all’interno di questo paesaggio.” Sono obbligata a camminare più velocemente possibile, per poter arrivare a Parma prima che faccia buio. Mentre procedo in discesa, ecco un cartello con su scritto “Via Emilia Ovest”, mi addentro nella statale SS9 direzione Parma,  lungo la strada tutto ciò che mi circonda sono grandi industrie ormai dismesse intersecate a un paesaggio naturale, proseguo per circa dieci chilometri e  arrivo in città dopo aver attraversato un lungo ponte, chiamato “ponte di mezzo” che divide le due zone di Parma, mi dirigo verso il quartiere “Oltretorrente” dove passerò la notte.

Il sole inizia a tramontare, la stanchezza si fa sentire, vengo accolta da un gruppo di ragazzi che con estrema gentilezza mi offrono una degna cena di prodotti pugliesi e ottimo vino, iniziamo a conversare sui nostri paesi d’origine. Federico, Stefano, Dario sono del sud Italia, si sono trasferiti a Parma cinque anni fa per iniziare i loro studi universitari. Decidiamo di andare a fare un giro per la città dopo cena. Pioviggina, una fitta nebbia circonda la città, Federico mi indica un grande murales di fronte le mura della sua casa, la strada si presenta piena di colori. “Questo murales è dedicato a questa zona: l’Oltretorrente”, il murales recita in dialetto locale testuali parole: “Balbo, t’è pasè l’Atlantic, mo miga la Perma!” (Balbo, hai passato l’Atlantico ma non hai superato la Parma) intesa come il torrente. ”Qui si trova la vera anima del quartiere, dice Federico, un quartiere ribelle, popolare e multietnico, qui in Oltretorrente c’è il cuore pulsante della città, inoltre è un luogo di partenza per proteste per la sensibilizzazione dei diritti umani.” Decidiamo di andare a fare un giro per il quartiere, vicoli, stradine e piazzette sono caratterizzate da case colorate e pittoresche insieme ai dei locali dove  ci si può fermare per gustare un’ampia varietà di sapori. Continuiamo la passeggiata, arrivando sul Lungo Parma, è un affluente del fiume Po, il torrente si presenta come un grande corridoio che consente il passaggio.

La mattina seguente decidiamo di andare a mangiare in un’osteria tipica, Opera Viva, ci son piatti che spaziano dalla cucina mediterranea fatta di pesce a quella tradizionale con carni selezionate e pasta fresca fatta a mano, il locale si presenta moderno e colorato, con opere d’arte e sculture giustamente accostate. Dopo il pranzo saluto i ragazzi ringraziandoli del tempo che mi avevano dedicato, Federico mi pone in dono una busta piena di mandorle e nocciole “Ti serviranno durante il cammino, buona strada.” Riprendo la statale per uscire dalla grande città, di fronte a me una rotonda con un cartello che sbarrava la scritta Parma, una fermata dell’autobus solitaria lungo la statale e un cartello: “Fidenza Km 17,3 ss9 Via Emilia”. Dopo 15 chilometri sulla statale decido di prendere un autobus che aspetto per circa un ora e mezza per dirigermi verso Fidenza, la statale è apparentemente pericolosa su questa tratta.

Arrivata a Fidenza, davanti a me una larga rotonda con piccole case che compaiono sullo sfondo e pochi chilometri dopo mi imbatto in una grande azienda agricola biologica, decido di entrarci dentro. Alessandra e Angelo mi accolgono con molta ospitalità. “Siamo andati via da Fidenza e ci siamo trasferiti in campagna, successivamente io e mio marito abbiamo creato un’azienda agricola biologica. Cercavamo io e Angelo un posto dove vivere la nostra voglia di “natura”: di piantare, di seminare e prenderci cura di tutti i nostri prodotti, prodotti che poi avremmo creato con le nostre mani. ci siamo riusciti dopo cinque anni di studio e lavoro. Abbiamo iniziato con l’aiuto dei nostri cugini, con grande entusiasmo ed energia, ho imparato l’arte della condivisione, ma soprattutto ho re-imparato dalla natura valori dimenticati: il silenzio, l’osservazione, l’attesa, la pazienza, l’ascolto. Da quasi vent’anni mi occupo di Agricoltura e Cibo, produzione di formaggio, marmellate, olio e vino, mio marito invece si occupa dell’allevamento di pecore, un’antica razza di pecore in via d’estinzione.”

Mi stringono la mano e mi regalano un pezzo del loro formaggio. Li ringrazio e decido di proseguire. Esco dall’azienda e attraverso un ponte dove appaiono una serie di alberi ricchi di bellissime foglie, separati da un lungo fiume e intervallati da verdi radure. Il carattere perpendicolare dello scenario è sorprendente, le rupi boscose da sinistra a destra lo chiudono come le quinte di un teatro; non è presente nessun edificio intorno, l’incanto e la solitudine di questo luogo periferico è completo, il senso di eremitaggio e solitudine regnano sovrani, tutta la tratta che attraversa Fidenza – Piacenza si presenta così, con nulla intorno, nessuno sbocco, solo colline e distese verdi che la circondano. Qualche boscaiolo che incontro, o timido contadino, guardandomi, si stupisce di vedere una ragazza sola.

Le ore del primo pomeriggio le passo sotto un grande albero che mi fa ombra mentre mangio delle nocciole e mandorle lasciate da Federico. La strada è faticosa, cammino tra l’asfalto bollente e i miei amici cactus che fanno da siepi ai terreni coltivati al margine della campagna. Poco prima di entrare in città osservo una lunga fila di persone che probabilmente tornano a casa. Arrivata a Piacenza, la Via Emilia si trova nel cuore pulsante della città, Via Roma e Via borghetto, che nel tempo si arricchì di importanti insediamenti religiosi, tra le chiese infatti poste su questa via troviamo quella di San Savino, nel punto in cui la Via Emilia si univa alla Via Postumia entrando nell’antica Porta Orientale della città Romana. Lungo la strada chiedo indicazioni a due anziane signore, una delle due è un po’ saccente e piena di sé, ma in fondo gentile; parla tumultuosamente da perdere il fiato,  ma alla fine mi indica di andare a visitare l’elegante Palazzo Anguissola di Grazzano, purtroppo chiuso, dove all’esterno di può ammirare il Palazzo Gotico, oggi sede municipale, in Piazza Cavalli. Quando decido di dirigermi verso il piazzale di Porta Borghetto, con le lunghissime arcate di marmo color marrone, sono arrivata dopo molti giorni alla fine del mio lungo cammino, proprio lì dove la Via Emilia finisce.


Sono Floriana Dinoi, nata nel 1997, fotografa ed artista visuale le cui radici affondano nel sud Salento, a Manduria. Dopo gli studi in Didattica e comunicazione – presso l’Accademia delle Belle Arti di Bologna – ho preso una borsa di studio che mi ha permesso di frequentare una Biennale in Fotografia Contemporanea allo Spazio Labò. Ed è a Bologna che ho iniziato a lavorare nel mondo della fotografia pubblicando saltuariamente fotografie per il sito PhotoVogue e partecipando alla realizzazione di due mostre collettive con l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 2021 ho intrapreso un lungo viaggio per Città del Messico ed è proprio in questo viaggio che ho preso consapevolezza e iniziato ad interessarmi a  tematiche sociali, mettendo poi in pratica  progetti personali di fotografia. Successivamente a questo viaggio ho intrapreso il percorso scolastico della Jack London che mi ha fatto acquisire una consapevolezza maggiore sul mondo del reportage, dopo una preparazione teorica ho avuto l’opportunità di mettere subito in pratica quello che avevo studiato, svolgendo il progetto Un passo dopo l’altro – Un viaggio a piedi lungo la via Emilia.

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