#Blog EllePì – Lavoro, vocazione e professione: intervista a Paola Magnano


Nel periodo storico che stiamo vivendo la crisi, da fenomeno straordinario, si è trasformata in fenomeno ordinario. Quel che è evidente, però, è che “non è normale che la crisi sia diventata normale”. A queste condizioni, il futuro non può non essere percepito come una minaccia rispetto alla quale armarsi e verso cui doversi adattare continuamente. La maggior parte dei nostri sistemi educativi e genitoriali – seppur inconsapevolmente – si strutturano proprio in risposta ad un mondo vissuto come pericoloso e strutturalmente incerto. Il fenomeno, per questo, investe soprattutto le nuove generazioni, alimentando sentimenti di sfiducia, minaccia e tristezza e minando la possibilità di immaginare un “futuro desiderato”, poiché tutto ci parla di un “futuro come minaccia”.

Le ripercussioni sulla persona, sulla ricerca della propria vocazione, sul lavoro ed il suo significato sono le più incisive e sono inevitabilmente devastanti. Quel che è evidente è l’urgenza di un profondo intervento di innovazione culturale ed uno dei primi elementi da cui partire è proprio la relazione tra lavoro e passione, due termini considerati troppo spesso antinomici dalla cui relazione, invece, è possibile partire per ricostruire un futuro davvero “desiderato”. Come fare? Quali modelli di orientamento adottare? Come stimolare un’adeguata educazione alla felicità e al perseguimento della propria vocazione?

Lo chiediamo a Paola Magnano, professoressa in Psicologia sociale presso l’Università di Enna Kore, psicologa e dottore di ricerca in Scienze dell’Orientamento.


1) Rispetto a questa situazione è assolutamente necessario iniziare a pensare a delle possibilità di azione, cambiamento e condivisione, partendo anzitutto da un’analisi del contesto attuale in cui questa problematica si inserisce. Che impatto ha avuto la pandemia da Covid-19, grande protagonista degli ultimi anni, sulle nuove generazioni in termini occupazionali, motivazionali e vocazionali?

Già da diversi anni gli studiosi hanno definito la nostra come la società del rischio e dell’incertezza, caratterizzata da repentini cambiamenti – sul piano sociale, economico e nel mondo del lavoro – che rendono imprevedibile il futuro e difficile pensare a obiettivi a lungo termine. Tali caratteristiche sono state purtroppo esacerbate dalla pandemia, che ci ha costretto a fare i conti con la possibilità che tutto, dall’oggi al domani, possa fermarsi, e debba essere riprogettato e ripensato. Sul piano degli effetti nel breve e medio termine questo ha significato per i giovani una limitazione delle opportunità, un abbassamento dei livelli di motivazione verso la vita e verso il futuro. Per i lavoratori precari, ad esempio, ha comportato in molti settori la perdita del lavoro e la riduzione dell’opportunità di trovare un’altra occupazione; per gli studenti universitari ha causato un decremento dell’impegno nello studio, un abbassamento del rendimento accademico, in alcuni casi l’intenzione di abbandonare gli studi, percepiti, in epoca di crisi, come un percorso troppo difficile da sostenere e incerto riguardo agli esiti.  
Sul piano della progettualità di carriera questo significa fare i conti con un futuro verso il quale si riducono le aspettative positive, non solo in termini di probabilità di trovare lavoro, ma anche che esso sia adeguatamente retribuito e che sia coerente con il proprio percorso di studi.
Infine, la pandemia da Covid-19 ha causato quello che alcuni studiosi hanno definito ‘career shock’, un evento dirompente e straordinario, causato da fattori al di fuori del controllo dell’individuo, che, però ha in sé una spinta al cambiamento, cioè la forza di innescare un processo di pensiero deliberato sulla propria carriera; per alcuni lavoratori tale pensiero deliberato ha rappresentato l’occasione di ri-significare il proprio lavoro e la propria carriera, di sviluppare nuove consapevolezze rispetto alle traiettorie intraprese e alle possibilità di modificarle. Un effetto di tale processo può rintracciarsi nell’aumento delle dimissioni volontarie di un gran numero di lavoratori cosiddetti ‘stabili’.


2) Nel mondo della ricerca – e non solo – si sta affermando sempre di più la forte correlazione tra il concetto di lavoro dignitoso e lavoro di significato. In luce a questo legame, vocazione e lavoro sono davvero due poli antinomici o è pensabile una conciliazione in termini concreti?

Parlare oggi di lavoro dignitoso non può più limitarsi a considerarne aspetti meramente giuridici, quali l’equità o la sicurezza, o economici (che pure, purtroppo, non possono essere dati per scontati), ma occorre introdurre un terzo punto di vista, quello legato al senso di valore personale, che pone il focus sul benessere dei lavoratori attraverso il riappropriarsi della significatività e del valore del lavoro. Avere un lavoro dignitoso passa attraverso la consapevolezza che tutti i lavoratori abbiano il diritto di sperimentare la libertà e la sicurezza nel posto di lavoro e di permettersi l’opportunità di scegliere e realizzare lavori produttivi, gratificanti, che siano un mezzo per esprimere le proprie potenzialità, i propri valori, fornendo un contributo significativo sul piano sociale.
Chi percepisce il proprio lavoro come significativo sperimenta un’esperienza soggettiva di significato esistenziale legato al lavoro, considerato come mezzo per la crescita personale e per il raggiungimento di uno scopo considerato importante.
In un’idea di lavoro così concepita – quella di svolgere l’attività lavorativa che sia coerente con i propri interessi, con la propria vocazione, con i propri valori – diventa un prerequisito essenziale.


3) Come possiamo permetterci il lusso di aspirare a un buon lavoro: un lavoro che sia soddisfacente e gratificante e che dia la possibilità di manifestare non soltanto le proprie competenze ma anche i valori e le cose importanti della propria vita?

Possiamo aspirare ad un buon lavoro innanzitutto se siamo consapevoli di cosa questo significhi: purtroppo per troppe persone è già tanto averlo, il lavoro, e il rischio post-pandemia è che prevalga il mantra “qualsiasi lavoro è meglio che nessun lavoro”. In tal senso è necessario un cambiamento culturale: in chi il lavoro lo dà, o ne gestisce alcuni aspetti, è necessario capovolgere la prospettiva che vede il lavoratore come un privilegiato, perché ha uno stipendio che gli permette di vivere (a volte appena di sopravvivere), considerandolo, invece, come una risorsa, perché mette a disposizione dell’organizzazione la propria persona (e con essa competenze, conoscenze, impegno, tempo, valore); in chi il lavoro lo cerca o lo svolge, è necessario sviluppare la consapevolezza che la vita lavorativa rappresenta una parte molto consistente della propria vita tout court – in termini di tempo e energie che vi si dedicano – pertanto la costruzione della carriera è un percorso che va pensato e supportato.


4) Che vantaggi ci sarebbero nello svolgere un lavoro che rispecchi la propria vocazione?

Sono ormai consolidati, e fanno parte della tradizione delle teorie della psicologia dell’orientamento scolastico e professionale, gli approcci teorico-metodologici che considerano l’importanza degli interessi professionali nelle scelte scolastiche, prima, e lavorative, poi. Gli interessi vocazionali, in quanto leva motivazionale, hanno il potere di attivare il nostro impegno, la nostra persistenza, le nostre energie, aumentando la probabilità di successo in una data attività e rafforzando il senso di autoefficacia, che è la percezione di competenza riguardo ad un compito o ad un obiettivo, e che è stato dimostrato, da studi di lunga data, essere il più potente predittore di un successo.


5) Da dove e in che forma deve partire questo processo di innovazione culturale?

Le istituzioni educative e formative possono fare moltissimo in tal senso attraverso gli interventi di career counselling e career education: parlare sin dalle scuole elementari di lavoro, di lavoro dignitoso, aiuta a sviluppare consapevolezza e a preparare i cittadini del futuro; aiutare gli studenti ad affrontare le transizioni di carriera ‘attrezzandoli’ sul piano cognitivo ed emotivo, contribuisce a renderli autonomi; coinvolgerli in percorsi finalizzati a sviluppare le cosiddette risorse psicologiche positive (coraggio, resilienza, speranza, ottimismo, intelligenza del rischio) consente loro di dotarsi della cassetta degli attrezzi per saper affrontare le sfide che mettono in gioco non solo le loro conoscenze e la capacità di prendere decisioni efficaci, ma anche le emozioni a queste legate: la paura, l’ansia non possono più essere considerati punti di debolezza dai quali rifuggire ma aspetti essenziali, soprattutto nei momenti importanti della vita, che fungono da faro per orientare i nostri comportamenti.
Limitarsi a dare consigli o fornire informazioni quando si fa orientamento è un intervento non solo inutile, ma talvolta persino dannoso: il consiglio, infatti, rappresenta il punto di vista di chi lo dà, e non tiene conto invece della prospettiva di chi lo riceve. Tali pratiche pertanto diventano solo un’occasione perduta: quella di attivare processi di consapevolezza e di autonomizzazione, che poi è il fine ultimo di qualsiasi processo educativo, che dovrebbe mirare a formare teste ben fatte piuttosto che teste ben piene.


Paola Magnano è psicologa e dottore di ricerca in Scienze dell’Orientamento, è professoressa associata in Psicologia sociale presso l’Università di Enna Kore. I suoi interessi di ricerca sono incentrati sul career counselling e la career education, con particolare attenzione ai temi della psicologia positiva e del lavoro dignitoso; è autrice di numerosi contributi internazionali sulle risorse psicologiche coinvolte nelle transizioni di carriera ed ha approfondito, in questo ambito, il ruolo del coraggio e della risk intelligence. È membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana per l’Orientamento (SIO)

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