#BlogEllePì – Gavetta, carriera, successi e poi: intervista al giornalista Giancarlo Trapanese
Una vita dedicata al giornalismo, dalla carta stampata alla Rai. Che effetto fa stare dall’altra parte?
Un effetto strano, provo sensazioni ancora da definire. Ancora non ho messo a fuoco il fatto di essere in pensione. Devo riorganizzare tutta la mia vita, è un momento particolare. Lavoro dal ’74 e mi sono sempre posto degli obiettivi, ho sempre fatto tante cose e ora mia sembra che manchino gli obiettivi, ma manchi anche tempo per perseguirli.
Tempo?
Non vorrei avere una visione leopardiana, ho abitato diversi anni a Recanati ed evidentemente questo mi ha influenzato, ma paradossalmente dopo i 66 anni inizia la parte della vita che tendenzialmente non va a migliorare, quindi non hai una prospettiva di progettualità e qualunque cosa ti venga in mente, ti poni l’interrogativo se avrai poi il tempo di realizzarla. Ti manca, quindi, quello stimolo.
Torniamo ai tuoi esordi professionali. Hai iniziato subito a lavorare come giornalista?
Sì, ho iniziato nel ’74 al Corriere Adriatico. Mi mandavano ovunque a fare gratuitamente servizi e facevo altri lavoretti per mantenermi, visto che all’epoca ero uno studente universitario di Giurisprudenza a Macerata. Ho fatto sei mesi di esattoria comunale, poi ho fatto il venditore di pubblicità, e diverse altre esperienze, stando sempre a contatto con la gente e continuando a scrivere.
Che bilancio puoi trarre?
Estremamente positivo, sono molto soddisfatto di tutto quello che ho realizzato, anche attraverso delusioni forti, piccole amarezze, fallimenti, cose che capitano nella vita di tutti. Quando, nel ’74, ho iniziato a dedicarmi al giornalismo feci un servizio alla scuola Federico II di Jesi. Era il mio secondo articolo per il Corriere Adriatico; ricordo che, nell’accogliermi, l’insegnante disse “è venuto un giornalista”; fu per me una grandissima emozione. Mi sono sentito investito di questa responsabilità. Allora sognavo di fare molte cose e posso dire di averle realizzate tutte, quindi, di fronte a un simile bilancio, mi sono divertito, ho fatto cose importanti che mi sono piaciute, non posso che essere contento. Ricordo che da bambino, quando andavo in auto con mio padre, ascoltavo sempre “Tutto il calcio minuto per minuto”. Mi piaceva tanto, quando finiva la trasmissione, inventarmi la telecronaca di una partita immaginaria da raccontare a mio padre. Quando sono cresciuto e ho effettivamente condotto la trasmissione, ho realizzato il sogno della mia vita. Poi sono passato a “90° minuto” per diversi anni.
Quando un giovane si avvicina a questo mestiere, tutti cercano di dissuaderlo. È capitato anche a te?
Ci hanno provato, sì. Quando cominciai a fare il giornalista, non avevo l’approvazione di mio padre, che voleva che facessi l’avvocato o il magistrato, e mi portò da un giornalista, Libonati, allo scopo di farmi desistere presentandomi tutte le difficoltà e gli ostacoli. Gli risposi che qualcuno avrebbe pur dovuto farlo quel lavoro e che io sarei stato quel qualcuno. Oggi forse è ancora più difficile di prima, c’è una grave instabilità dell’editoria che rischia di mettere in serio pericolo anche le future pensioni dei giornalisti.
A cosa è dovuta questa situazione, secondo te?
Mancano editori puri e idee. Gli editori sono convinti di non guadagnare, ma questo si deve al fatto che è un’editoria vecchia, un modo vecchio di concepire giornali e telegiornali, incapaci di reinventarsi. In particolare, la carta stampata, che si sta arrotolando su se stessa e non riesce ad essere competitiva. Andrebbe modernizzato tutto, app e sito dinamico a pagamento e in tempo reale, con continui aggiornamenti, e cartaceo, solo gratuito, con gli approfondimenti. La gente non compra più il giornale perché ha già letto le notizie il giorno prima. Mancano gli editori puri che abbiano in previsione un’azienda produttiva, che ci credano, come gli editori americani. In Italia oggi mettono al primo posto il peso politico e la presenza sociale poi si comprano un giornale. In America essere definito scrittore è quasi un titolo nobiliare, in Italia purtroppo non è così.
Di quali tematiche ti sei maggiormente occupato?
Direi di tutto, ho cominciato con la giudiziaria e la cronaca nera, ma non ero tagliato per questo, perché dietro i fatti ci sono le persone e ho sempre avuto paura di urtare certe sensibilità. Ho fatto molta cronaca bianca, molto sport e molta organizzazione di lavoro. Una delle esperienze più curiose che non mi sono fatto mancare è stata quella dell’inviato di guerra, per due giorni, al confine serbo-croato nel ’91, ma per puro sbaglio.
Come per sbaglio?
In realtà dovevo andare da Ancona con un aliscafo, per portare medicine e vedere Zara bombardata, ma l’aliscafo si ruppe e siamo stati costretti per due giorni a Zara col coprifuoco. Per fortuna c’era una tregua e facemmo amicizia con un soldato che una mattina ci portò al fronte per 50mila lire (che nessuno mi ha rimborsato). Andammo in prima linea con le truppe croate. Tutti gli scenari di guerra ti lasciano il segno e io non avevo nessuna preparazione. All’alba, vedendo una chiesa crivellata di colpi, mi venne l’idea di fare lo stand-up di fronte alla facciata. L’operatore era Massimo Mossi, iniziammo a girare, ma era buio; gli proposi di accendere il faretto; vedevo che i soldati croati ci facevano dei gesti; mi sono detto che tutto il mondo è Paese e ci stavano salutando. Invece mi fecero poi vedere che lì c’era la torretta di un cecchino serbo a poca distanza visiva e il comandante della trincea croata mi disse: “secondo me non ti hanno sparato perché si sono chiesti chi fosse l’imbecille che si era fatto illuminare, immaginando che potesse essere una trappola”.
Quando è stato il tuo esordio in Rai?
Il primo contratto di collaborazione fu il 1 settembre 1979, e durò fino all’82. Poi dall’82 all’86 sono stato corrispondente da Macerata e dall’86 sono entrato in pianta stabile. Ho fatto tutta la gavetta, per 18 anni sono stato vice-capo redattore ad Ancona (credo sia un record italiano perché in teoria si fa carriera, ma essendomi tenuto sempre lontano dalla politica, in qualche modo l’ho pagata). A Perugia sono stato capo redattore.
Tra i tuoi lavori, quali consideri più significativi?
La rubrica “Raccontaci” dedicata alle radici, fatta con immagini del superotto dei nonni che si ritrovava nelle vecchie cantine. Io invitavo i protagonisti a trasferirli su cassetta o altro supporto e poi invitavo la persona a raccontare come eravamo. Ho lavorato molto a servizi sul terremoto. Non ho grandi scoop nella mia vita, ho sempre preferito approfondire l’aspetto umano e sociale. Il principio fondamentale per me è che l’aspetto umano viene prima della notizia. Mi sono sempre imposto di lavorare con grande rigore. Non ho mai avuto condizionamenti, un po’ perché non mi sono mai messo nella condizione di subirli, un po’ perché non li ho mai accettati. La mia raccomandazione ai colleghi più giovani è di andare alla notizia con il taccuino bianco, senza avere un’idea o un’ipotesi da appoggiare o accreditare.
Come è stata l’esperienza dell’insegnamento?
Sono stato cinque anni docente all’Università di Macerata, al corso di Scienze delle Comunicazioni, dove insegnavo Teoria e tecnica del linguaggio radio-televisivo. È stata una bellissima esperienza e ancora oggi molti ragazzi che si sono laureati con me mi scrivono e condividono le loro avventure. La docenza, rispetto al lavoro giornalistico puro, ti dà un contatto umano molto forte con la gioventù, che ti lascia il segno.
E poi la scrittura, con ben dodici libri all’attivo.
La carriera di romanziere non si chiude, anche se sono un po’ stanco dalla distrazione con cui la gente segue i libri. L’esperienza della scrittura è meravigliosa, perché, mentre per il giornale subisci la tirannia del tempo e dello spazio, con i libri è diverso. Molti dei miei libri nascono dalle sensazioni che ho provato e che non sono riuscito a esprimere nei miei servizi. Il libro “Sirena senza coda” (Vallecchi editore), ad esempio, basato su una storia reale, che ho scritto con Cristina Tonelli, ha avuto 105 presentazioni in tutta Italia, da Udine a Vibo Valenzia.
Come racconteresti la tua esperienza umana del lavoro?
La mia soddisfazione deriva dal fatto che credo di essere quasi sempre riuscito a curare gli aspetti umani del lavoro, cercando di coniugarli tra le esigenze dell’informazione e il bisogno di rispettare gli spazi e la sensibilità di ciascuno. Perugia è stata una bella esperienza in questo senso, perché lì ero il capo e prendevo decisioni, lì ho avuto una dinamica intensa, una base comune e un comune interesse. Ciò che mi lascia perplesso è che i rapporti umani che credevo di aver creato con molti, alla prova di mancanza di un interesse specifico, mi pare che si stiano sgretolando. Don Oreste Bensi diceva “Ama per primo e ama gratuitamente, non aspettarti niente in cambio dell’amore”. Alla fine, deve essere così.
Giancarlo Trapanese: scrittore, giornalista professionista, Caporedattore Sede Rai Perugia, già vicecaporedattore sede Rai Ancona, professore a contratto di Teoria e tecnica del linguaggio radiotelevisivo presso Scienza della Comunicazione – Università di Macerata (dal 2008 al 2011). Dal 2011-2012 professore a contratto del Laboratorio di Comunicazione scritta – Scienza della Comunicazione Università di Macerata. Nasce ad Ancona il 22/07/1954 ed attualmente risiede a Numana e ad Ancona. Sposato, due figli, ha diretto all’inizio della sua carriera due televisioni private: Tv Marche ed Rtm Recanati. Ha lavorato a Roma per il settimanale Qui Notizie e collaborato con il Resto del Carlino, per poi passare al Corriere Adriatico dove è stato capo servizio della redazione di Macerata per 5 anni, e poi responsabile degli interni esteri prima di essere assunto in Rai nel 1987. In Rai ha collaborato con le più importanti trasmissioni sportive, La Domenica sportiva (di Tito Stagno), Novantesimo Minuto, Tutto il calcio minuto per minuto, Domenica stadio, Domenica sprint, L’Una italiana (con Umberto broccoli). Ha presentato sue pubblicazioni nel programma ufficiale sia della Fiera del libro di Torino che della Buchmesse di Francoforte.