Blog EllePì – Fidarsi, confidare, affidarsi.

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Il terzo degli appuntamenti di Linguaggi EllePì organizzati dalla Fondazione Lavoroperlapersona, si è svolto, come consuetudine, nella cornice della libreria Mondadori in via Piave a Roma e ha proposto una riflessione interdisciplinare sul ruolo della fiducia nei diversi ambiti della vita sociale, organizzativa e pubblica.

L’incontro ha preso spunto dalla recente pubblicazione del volume ‘Fidarsi. Alle radici del legame sociale’ di Luca Alici, ricercatore di Filosofia Politica.

A dialogare con l’Autore sono stati Lucio Biggiero, professore di Organization Theory and Design e Alessia Sammarra professore di Organizzazione e Gestione delle Risorse Umane, che ha introdotto il tema e moderato il confronto.

 

Per ripercorre i principali temi affrontati vi proponiamo un’intervista con l’Autore, Luca Alici.

Caro Luca grazie per la tua disponibilità a rilasciarci questa breve intervista. Iniziamo adesso a parlare del ruolo che la fiducia assume oggi nella costruzione dei legami sociali.

Personalmente tenderei a distinguere almeno tre piani.

Innanzitutto il vissuto quotidiano, che rischia di testimoniare un tradimento perpetuato della fiducia: viviamo un tempo in cui il sospetto, la paura e l’incertezza sembrano assediare corpi in stato di ansia e vite in stato di emergenza, comunità sulla difensiva e futuro senza tempo, liquidità delle relazioni e istituzioni lontane. Una società dalla sfiducia generalizzata il cui messaggio in fondo sembra essere l’imperativo di un’immunizzazione reciproca, fondata sul consolidamento necessario di ciò che è proprio e sulla diffidenza radicale nei confronti di ciò che è comune.

In secondo luogo quanto sostengono alcune voci in ambito economico e di teoria sociale, che cercano piuttosto di rivendicare la possibilità, la dignità e persino l’efficacia di un modello alternativo a quello vigente: a ritagliarsi spazio tra sedimentazioni tradizionali sono infatti le molte teorie del dono, della cooperazione, del capitale sociale, dell’economia di comunione, le quali si inseriscono all’interno di un orizzonte che valorizza i beni relazionali e richiama il ruolo degli scambi sociali di reciprocità. Questo approccio relazionale all’organizzazione dei legami sociali cerca di valorizzare il peso specifico della fiducia, persino mettendone in luce il connubio non utopico tra affidamento, affidabilità e sviluppo.

Infine c’è la possibilità di pensare la fiducia come un fondativo antropologico, senza con questo fornirne un’ingenua versione disincarnata, ma togliendo la fiducia da ogni prospettiva di calcolo: senza perdere il senso della realtà e quindi distaccarsi dalla consapevolezza di quanto la stessa fiducia esercitata, affidata e vissuta sia un esercizio lungo, rischioso e mai scontato, forse può però risultare prezioso, nell’ottica di una riflessione sull’umano, rendersi conto che la fiducia costituisce almeno un doppio terreno di fecondo investimento. Da un lato, nella direzione di un’alternativa all’opzione nichilista che tende al nulla di significato o all’indifferenza: la fiducia attesta il nostro essere affermazione e apertura originaria. Dall’altro verso una matura visione dell’uomo che si stacchi dalla sua ambizione di autofondazione razionale: la fiducia ci dice che non dipende tutto da noi e che non possiamo eludere questa costituiva dipendenza.

Secondo te è possibile pensare di poter fare a meno della fiducia nelle nostre relazioni?

Provo a rispondere mettendo insieme la nostra quotidianità, la citazione di un sociologo e un’immagine magari banale ma almeno immediata.

Chi di noi se la sentirebbe di dire ad un bambino di fidarsi di tutti, persino degli sconosciuti? Chi di noi metterebbe qualcosa a cui tiene davvero nelle mani del primo che capita? Chi di noi in alcuni luoghi e su alcuni temi affermerebbe che ciò di cui non si può fare a meno è la fiducia e non, ad esempio, la tutela e la garanzia? La vita di tutti i giorni ci dice che non ci si può sempre affidare alla fiducia, perché il prezzo del tradimento rischia di essere troppo alto, la ferita troppo profonda e la ricostruzione troppo ardua. Poi però leggiamo una frase molto forte (a cui sono legato, perché dice ben più delle sue parole) di Luhmann, che recita così: “Senza fiducia l’individuo non potrebbe neanche alzarsi dal letto ogni mattina. Verrebbe assalito da una paura indeterminata e da un panico paralizzante”. Persino l’inizio della vita di tutti i giorni ci dice in questo caso che esso matura all’interno di una gesto di fiducia, perché l’alternativa è la paralisi, il panico e l’essere sterili per sé e per il mondo. Ecco allora il paradosso: siamo persone che vivono di fiducia ma costrette a selezionare “persone di fiducia” a cui affidare pezzi della propria vita; dobbiamo ricorrere agli altri persino quando non ci fidiamo davvero di loro.

Credo allora che la vera sfida sia muoversi “a proprio agio” tra queste due verità, e per farlo si potrebbe pensare un po’ alla fiducia come all’aria che respiriamo: non ci rendiamo conto sempre, ognuna delle migliaia di volte che lo facciamo quotidianamente, di quanto sia essenziale alla nostra vita questo gesto che diamo oramai per scontato; nonostante ciò ci costruiamo sopra le nostre vite, ci carichiamo i nostri impegni, ci fondiamo tutto. Finisce allora che ci accorgiamo di questa fisiologia solo quando è sotto attacco e rischia di farsi patologia (inquinamento, malattia, affanno) o quando siamo del tutto soli e riusciamo a sentire il nostro respiro (il silenzio). Ecco, credo che la fiducia possa un po’ essere paragonata a questa presenza invisibile, della quale non possiamo fare a meno nella nostra esistenza, dato che essa costituisce la pre-condizione di ogni apertura possibile, e per questo vitale.

Tutto ciò non significa che non vada allenata, guidata, accompagnata, verificata: non si può chiedere a chi non ha mai corso di fare una maratona, altrimenti ne metteremmo a rischio la salute; così come non si può chiedere a nessuno di smettere di respirare, altrimenti lo condanneremmo a morte. Senza la fiducia non ci sarebbe il tu e non ci sarebbe nemmeno l’io (e nemmeno io!): in questa scommessa fragile e preziosa non si nasconde un’esortazione moralistica, ma il tentativo di cogliere il senso autentico dell’insostenibilità di ciò che Anders chiama rispettivamente “fierezza prometeica”, ovvero il “rifiuto di essere debitori di qualche cosa, persino di se stessi, ad altri” e “orgoglio prometeico”, che “consiste nel dovere tutto, persino se stessi, esclusivamente a se stessi”.

Concludiamo questo nostro incontro con un ultimo interrogativo. E’ possibile nel mondo d’oggi costruire spazi di convivenza improntati alla reciprocità?

Su questo terreno credo sia necessario sciogliere un equivoco e provare a pensare un concreto ambito di declinazione per non essere troppo astratti o retorici.

La reciprocità è qualcosa nella quale siamo immersi fin dalla nascita e non un oggetto di volontà, così come la reciprocità non si riduce alla simmetria, ma resta presente persino laddove i livelli sono asimmetrici. Una vita interamente consegnata a se stessa, che vive sotto l’assillo della protezione, dell’autoconservazione e che passa attraverso il distacco dagli altri è una vita paranoica, che tenta disperatamente e artificialmente di cancellare la reciprocità originaria costitutiva della persona, la quale, nella sua natura più radicale, è però proprio reciprocità senza simmetria. Innanzitutto l’altro da me non è esteriorità assoluta e neppure vittima di assimilazione, ma terminus a quo della sollecitudine dell’io e terminus ad quem della propria incompiutezza; e questo rivela una reciprocità che è la nostra origine.  Una reciprocità che però, in seconda istanza, non solo non si riduce ad un appiattimento sullo stesso livello, e non solo non rimanda meramente all’asimmetria più scontata e altrettanto inevitabile, ovvero quella tra maestro e discepolo, genitore e figlio, autorità e cittadino, ma è già asimmetrica nel midollo di ogni relazione, immediatamente rapporto non alla pari tra un “agente” e un “paziente”. Siamo inscritti in una reciprocità che non dipende da noi e che la dissimmetria non cancella, ma si carica sulle spalle, inevitabilmente; come dice Ricoeur, occorre allora integrare “la dialettica della dissimmetria tra io e altri e la mutualità dei loro rapporti”. E di questa convivenza dialettica la fiducia è paradigmaticamente espressione.

Un’ultima battuta allora. Come toccare con mano la difficoltà che facciamo a integrare queste due dimensioni e a non rinnegare la reciprocità che ci costituisce?  Basta buttare un occhio alla fatica che c’è a pensare lo spazio pubblico, persino urbanisticamente. Per questo motivo il tema dell’abitare costituisce oggi un grande terreno per analizzare la nostra società e per cimentarci nel “disegno” di un’alternativa. Proprio nella direzione di quanto dice – e bene – Elena Granata, laddove invita a ripensare “l’abitare (e in primo luogo la casa) non solo come bene di comfort o sola rendita ma anche come pratica intrinsecamente relazionale, che cerchi di coniugare libertà individuale con qualche forma di comunanza, che implichi prendersi cura del proprio ambiente di vita e tornare a sbilanciarsi verso una dimensione pubblica e collettiva”.

 

 

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