Blog EllePì – Cittadinanza e immigrati: pietra d’inciampo anche per lo sviluppo

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Saranno molti i bambini che non accompagneranno i loro genitori a votare

di Gabriele Gabrielli

E’ trascorso quasi un anno da quando Roberto Benigni, in occasione della giornata conclusiva delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ha richiamato alla nostra memoria questo pensiero di Giuseppe Mazzini tratto dai suoi Doveri dell’uomo: “La Patria non è un territorio; il territorio non ne è che la base. La Patria è l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale – finché uno solo vegeta ineducato fra gli educati – finché uno solo, capace e voglioso di lavoro, langue, per mancanza di lavoro, nella miseria – voi non avrete la Patria come dovreste averla, la Patria di tutti, la Patria per tutti.  Il voto, l’educazione, il lavoro sono le tre colonne fondamentali della Nazione; non abbiate posa finché non siano per opera vostra solidamente innalzate”.

Uno scritto di straordinaria attualità che ci consente una riflessione, prendendo spunto dal riferimento al “voto”, sulla questione della partecipazione dei cittadini, sulla sua dimensione e qualità. In verità, per rifarci all’espressione usata da Mazzini, sembra essere una “colonna” logora in più parti e rovinata dall’incuria. Malgrado la partecipazione rappresenti la struttura portante di quel pavimento su cui vive e prospera il benessere di un Paese. Può essere declinata in tanti modi perché ha molte prospettive. Quando c’è partecipazione la società civile, la politica e le istituzioni sono vive, le imprese generano idee, così come le università. Quando ce n’è poca si respira un’aria asfittica. Un po’ dappertutto. Quando viene meno poi, vuol dire che anche la libertà è perduta perchè, canterebbe Giorgio Gaber, “libertà è partecipazione”. Possiamo dire allora che il livello di partecipazione dei cittadini alla vita politica, quella delle famiglie e degli studenti all’organizzazione e al funzionamento delle scuole, quella dei lavoratori all’andamento delle imprese individua tre ambiti importanti per misurare la salute e il buono stato di questa “colonna”. Si tratta evidentemente di una valutazione assai complessa da fare. Anche perché ci sono segnali contraddittori in tutti gli ambiti. In generale, però, l’idea è che ci sia davvero molto da fare per rimuovere gli ostacoli, di ordine culturale, economico e sociale, che si frappongono alla piena partecipazione in tutti i campi. Un esempio per tutti può bastare, forse il più significativo.

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Ricordo molto bene quando da bambino babbo mi portava per mano nei locali delle scuole elementari del mio paese allestite per due giorni in modo inusuale, con transenne di legno e cabine identificate da numeri. Era una domenica come questa, una domenica in cui i cittadini venivano chiamati a esprimere con il voto l’essere parte viva di quella “comunione” che nasce tra i figli di uno stesso territorio. La gente, espletato questo diritto e dovere, si intratteneva poi a chiacchierare a voce bassa –in piccoli gruppi- davanti alle scuole dove anziché il maestro, che ti invitava a entrare perché era tardi, c’erano carabinieri e soldati. Non capivo ancora bene, naturalmente, cosa rappresentasse questo travestimento della mia scuola, ne apprezzavo però la novità e il movimento che generava, e anche la circostanza che il lunedì sarebbe stato giorno di vacanza e quindi potevo giocare con i soldatini con i miei compagni. Ricordo bene, però, che babbo mi diceva che solo trent’anni prima tutto questo non c’era. Era una conquista della repubblica e della democrazia. E che una volta le donne non potevano votare. E che votare era una cosa importante, forse la più importante per un cittadino che doveva essere però onesto e lavoratore.

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C’è un masso enorme nel nostro Paese che ostacola la partecipazione degli immigrati e, ancor prima, dei loro figli allo “sviluppo della vita nazionale”, base per la costruzione di una comunità civile e politica. La questione delle regole per riconoscere la cittadinanza agli stranieri, infatti, pesa come un macigno sul presente. Ancor più sul futuro. L’acquisizione della nazionalità, quando non avvenga per ius sanguinis, “è un percorso a ostacoli”, ha scritto recentamente Maurizio Ferrera. Poco importa essere nati nel nostro territorio (ius soli), così come non interessa che si condivida la medesima cultura (ius scholae). Il processo di naturalizzazione è da rivedere profondamente, perché anacronistico, distante dalle politiche degli altri paesi europei e, soprattutto, serio ostacolo per lo sviluppo. Gli appelli ripetuti del Presidente della Repubblica dovrebbero far vibrare la coscienza di tutti, cominciando da quella della politica e tramutarsi in azioni responsabili che stentano però a prendere forma, ostacolata da pregiudizi e interessi. Occorrono nuovi criteri per il riconoscimento della cittadinanza, ma soprattutto è scandalosa la situazione di quelle centinaia di migliaia di bambini figli d’immigrati che sono nati nel nostro Paese, frequentano le nostre scuole, parlano la nostra lingua e i nostri dialetti ma non sono cives, né i loro genitori. E’ veramente “una follia che i figli di immigrati nati in Italia non siano cittadini”, ha detto Giorgio Napolitano.

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Quanti bambini figli d’immigrati oggi e domani non accompagneranno i loro genitori a votare? E domanderanno perché quella scuola che li accoglie tutte le mattine, oggi e domani restino chiuse per i loro genitori. Che risposta abbiamo? Che risposta abbiamo anche nei riguardi dei nostri figli e nipoti? Il pregiudizio verso l’altro, il diverso, lo straniero è ancora molto forte, ma questo macigno va tolto e in fretta, perché è pietra d’inciampo per noi tutti e per il Paese. C’è il rischio, poi, che trascini con sé anche ogni programma di crescita. Questa, anche a volerla ridurre al significato assai angusto di sviluppo economico chiuso nei suoi miopi indicatori, passa per l’energia di tutte le persone, la passione civile di chi abita il territorio, la motivazione e progettualità di chi vuol lasciare ai figli una società migliore e più giusta, il lavoro come espressione di creatività e servizio. La crescita guarda al futuro e richiede sostenibilità. Come si può pensare seriamente, anche con le sole lenti economiche, allo sviluppo senza che si spalanchino le porte a politiche inclusive?

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