Un passo dopo l’altro: viaggio a piedi lungo la via Emilia – 1a tappa: Rimini-Cesena

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La Fondazione Lavoroperlapersona nasce per valorizzare il lavoro, espressione della persona, attraverso la ricerca, l’educazione e la promozione culturale e sociale. Ogni giorno cerchiamo di farlo utilizzando linguaggi diversi che spesso si incontrano con quelli dell’arte, della letteratura e della fotografia. É questo il caso della felice collaborazione con la Scuola Jack London, ideata dallo scrittore Angelo Ferracuti e dal fotografo Giovanni Marrozzini, con la quale per il secondo anno finanziamo un reportage. Dopo il progetto Terra Terra alla ricerca dei mestieri perduti lungo l’Appennino, presentiamo “Un passo dopo l’altro: viaggio a piedi lungo la via Emilia”. Il reportage, lungo 280 chilometri, è realizzato da Floriana Dinoi, fotografa e artista visuale ci racconterà persone, mestieri e la vita che corre lungo la via simbolo dell’identità storica, culturale, economica dell’Italia e dell’Emilia Romagna.


È una mattinata di tarda primavera, e la partenza dalla stazione di Bologna con destinazione Rimini, ho uno zaino pesante da dieci chili sulle spalle e le gambe che sostengono il corpo, i talloni toccano terra, la testa il cielo, e così si parte con il primo passo, poi un altro ancora.

Arrivata a Rimini subito mi dirigo verso Piazzale Fellini: da qui inizia una lunga striscia di asfalto piatta, con rare curve. Sono all’interno del parco, di fronte ad una grande scultura che riproduce una enorme macchina fotografica chiamata ‘Fellinia’, realizzata a mano nel 1948 dallo scultore e fotografo di Pennabilli Elio Guerra. Penso che possa essere un buon viatico. Scorrono di fronte a me scene immaginarie di “Amarcord”: è la Rimini dei ricordi giovanili del regista, “una dimensione della memoria” come la definiva. La città del film fa infatti parte di una dimensione onirica, penso mentre rallento un po’, prendo fiato, e poi mi dirigo verso il Ponte di Tiberio, un ponte romano che dal 1885 è monumento nazionale. È l’emblema della città e il primo tratto della via Emilia, lo attraverso mentre scatto qualche fotografia, da qui cambia la mia prospettiva: questo ponte fatto di mattoni di marmo grigio e pietra d’Istria sembra così lungo da non finire più, si sviluppa in cinque arcate, con la corrente del fiume Marecchia che scorre sotto.

La materia del camminare riguarda il modo in cui attribuiamo significati particolari ad atti universali, simile al mangiare, dormire o respirare, la storia del camminare fa parte della storia dell’immaginazione e della cultura, della libertà e di significati che vengono perseguiti in tempi diversi da differenti tipi di camminare o di camminatori”: lo dice Rebecca Solnit. Condivido. Intanto, continuo a camminare a nord di Rimini. Lungo la strada entro in una vecchia barbieria dove lo chauffeur sta tagliando i capelli a un tizio grassoccio, seduto sulla poltrona come un papa e, successivamente, mi impressiona una vecchia edicola stipata di giornali sparsi ovunque. Penso a quanto disordine ci sia e contemporaneamente provo un grande fascino, resto a fissarla per qualche minuto prima di incamminarmi di nuovo e chiedere informazioni a un signore che ha appena acquistato il quotidiano, il quale con voce rauca inizia a parlarmi.

Si chiama Antonio Montanari, comunista, ex professore di storia e letteratura ma soprattutto un fantastico raccontatore di storie. Ha alcuni nei sul viso di diverse forme e con varie sfumature, gli occhiali piccoli e sottili, un giornale sotto il braccio sinistro. Mentre mi parla alzando il tono della voce la mano con le vene sporgenti gli trema. Mi racconta degli anni della guerra e di quanto i suoi ricordi siano ancora vividi e intensi. Qualche metro più avanti mi mostra un blocco di cemento indicandomelo con un cenno del palmo: “E’ rimasto intatto dal ’43, casa di mia madre fu completamente distrutta perché i bombardamenti furono eseguiti da qui, dove siamo poggiati ora. È stata bombardata in quegli anni dai tedeschi e ricostruita negli anni successivi”.

Durante il cammino vedi strade che già riconosci come tue, sentieri, fisionomie lontane di città, paesi, parchi, mappe, guide, pellegrinaggi. I paesaggi trovano il loro punto di forza nel fragile confine tra realtà e finzione. Intanto mi accorgo di aver già fatto i primi dieci chilometri, adesso l’aria è calda, lo zaino già troppo pesante, sudo. Sui due lati della strada: a destra un vecchio palazzo ormai abbandonato con un telo bianco con il titolo del film Amarcord, una grande scritta di color rosso, mentre sulla sinistra stabili in costruzione con auto e gente che passa veloce in bici, sfidando il traffico. Intravedo i primi palazzi grigi in lontananza. Prima di arrivarci, entro in una locanda per ripararmi dal calore diventato quasi insopportabile. Anna mi guarda come se avessi bisogno d’aiuto, prende una bottiglia di acqua naturale che si trova sotto il bancone, la appoggia sul mio tavolo dicendomi: “questa te la regaliamo noi”, pochi attimi dopo dalla porta della cucina esce suo marito Alberto.

Sono proprietari da più di trent’anni di una storica locanda a conduzione familiare, la locanda di San Martino. Generosamente, mi invitano a sedermi con loro e iniziano a raccontarmi quanto sia “maledetta” la Via Emilia, “una strada piena di macchine e industrie, non è più come una volta”. Sono una famiglia di ristoratori famosi, soprattutto a Rimini. La locanda fu infatti costruita negli anni del Dopoguerra e loro appartengono alla quarta generazione che continua la tradizione di famiglia: cucina tipica riminese di pesce, i loro piatti forti sono i quadrucci alla seppia, vongole veraci con fagioli e il risotto alla marinara rigorosamente cucinato “secondo l’antica ricetta dei pescatori”.

Più avanti, lungo la strada che mi porterà a Santarcangelo di Romagna, un paesaggio più solitario e desertico, villette solitarie e stazioni di servizio. Continuo a percorrere la Ss9, una strada sembra non finire mai, camminando, e quasi non mi accorgo di essere arrivata a Santarcangelo di Romagna, la maglietta intrisa di sudore e un lieve dolore alle gambe. Una volta arrivata, trovato alloggio in un antico convento di clausura, attraverso il paese costellato di osterie famose e locali tipici romagnoli. I primi trenta chilometri sono finiti, ho fame e lo stomaco è vuoto, quindi mi dirigo verso la Sangiovesa, l’osteria di tutti i Romagnoli, fatta di arte e di una storia che dura da più di trent’anni. “Storie di grandi signori, di Papi e di attrici, ma anche di gente semplice e sorrisi sinceri, di sagre di paese e fiere del bestiame; storie che si rincorrono fra salette concatenate e grotte che parlano di una continuità autentica, riflettendo lo spirito fondatore di Tonino Guerra – poeta, sceneggiatore, pittore e intellettuale, figura cardine per Santarcangelo, la sua città, e la Sangiovesa è stata uno dei luoghi simbolo della sua vita” mi spiega il direttore. Qui piatti tipici romagnoli sono serviti in sale rustiche con travi in legno e pareti in mattoni, e si utilizzano solo materie prime, ingredienti da filiera corta, che arrivano dalla Tenuta Saiano o da produttori di fiducia. “La nostra è una cucina materna, fatta con lo stesso amore e rispetto insegnatoci dalle nostre nonne” tiene a precisare. La piazza è una bellezza, qualche bancarella attorno, sulla strada, ultimi resti di tradizione popolare di paese. Adesso giro a sinistra e prendo la strada per arrivare al convento, qualche punto è un po’ ripido, il paese è pieno di scale, salite e discese, le gambe reggono a malapena.

La mattina seguente, Suor Letizia mi spiega che: “i chiostri dei monasteri o dei conventi erano a volte decorate con racconti evangelici. In genere porticati di forma quadrata che racchiudevano giardini con in mezzo un pozzo, uno specchio d’acqua o una fontana, i chiostri erano luoghi in cui i monaci o le suore potevano passeggiare senza lasciare lo spazio contemplativo dell’ordine. I giardini rinascimentali erano ornate di personaggi storici o mitologici, poiché coloro che passeggiavano all’interno erano già al corrente della storia, le parole non servivano e in un certo senso la storia stessa era rinarrata dal semplice fatto di essere richiamata alla mente nello spazio e nel tempo della passeggiata e dell’incontro con le sculture. Tutto questo, dunque, rendeva il giardino uno spazio poetico, letterario, mitologico e magico.

Già alle 9,30 la strada che porta verso Savignano del Rubicone è un molto trafficata, ci sono moto, auto, grandi camion che sfrecciano al mio fianco. Savignano un tempo fu confine tra Italia e Gallia, e la patria di Secondo Casadei, l’uomo che sconfisse il boogie e riuscì a trasformare “le ballate del folclore romagnolo in musica nazional-popolare”. Qui la strada ha un colore di terra rossa, scruto le colline ondulate in lontananza, ma ormai è un paesaggio lavorativo più che ricreativo. Lungo la strada ci sono i miei fiori di campo preferiti, questi piccoli coni geometrici di colore giallo circondati da qualche sterpaglia lungo i lati della strada, ne raccolgo uno per poggiarlo sull’orecchio destro – voglio che mi accompagni durante tutto il mio cammino. Lungo questa linea di asfalto, osservo a lungo i panorami pieni di rovi, polvere, calura e rischio radioattivo, ma anche la luce spettacolare del cielo, la vista emozionante di distese verdi. Sulla mia destra solo grandi case coloniche abbandonate, le mura chiare e le piante rampicanti sulle pareti.

Il terzo giorno la direzione è Cesena, subentra lo spaesamento, un sentimento che rimette in gioco le mie certezze, in questo caso visive, ciò che credo di vedere. Devo andare dritto, attraversare la terra di un campo che arriva sulla strada. Sono le 10 del mattino, il caldo non fa respirare e il cemento sprigiona un calore tale che è difficile continuare a camminare. La schiena brucia come il peso insopportabile dello zaino che mi porto addosso. Sulla mia destra, un grande casolare rosso con una vecchia scritta che mi indica i chilometri percorsi fino ad ora: ’S.S.n Via Emilia km 59’. Poi, uno spiazzo verde che si affaccia alla riva di un fiume con intorno grandi case moderne. Una macchina grigia accosta e mi aspetta lì, poco più avanti. È una Citroen C2 grigia. Un signore di mezza età abbassa il finestrino e da lontano grida: “salta su, fa molto caldo per camminare a quest’ora”. Restiamo in silenzio per qualche minuto, poi guarda il suo orologio blu elettrico e pensa che è già molto tardi per pranzare. Gli dico di lasciarmi in un paesino qui vicino, ma insiste per accompagnarmi fino a Cesena, e una volta arrivati, dopo averlo ringraziato esclama, sorprendendomi: “Ricordiamoci di restare umani!

Fisso un muro che divide una casa abbandonata da un campo di grano. Le orecchie riposano in questo paesaggio ovattato, anche se vicino alla statale c’è un traffico di macchine che non le lascia riposare del tutto. Piante e alberi mi fanno compagnia, insieme ad un libro di Pier Vittorio Tondelli che ho iniziato a leggere, “Altri libertini”: “Sono sulla strada amico, son partito, ho il mio odore a litri nei polmoni, ho fra i denti la salsedine aaghhh e in testa la libertà” racconta in un passo.

“In testa la libertà” e intorno una forte umidità che bagna le foglie di ulivo, un sorriso di un uomo in trattore, l’erba troppo verde con delle gocce di umidità sulla punta gialla che creano una piacevole freschezza sulle gambe. Nel parco incontro un uomo alto e serio con più di 50 anni d’età, piuttosto gioviale, si chiama Armando, mi chiede cosa ci faccio qui da sola, gli parlo del mio viaggio, l’idea di fotografare e raccogliere storie on the road. Lui risponde con una parola che non capisco, probabilmente dialettale: “Sai cosa vuol dire Cisaina?” “Cisàina è il nome di Cesena. Lo diciamo in dialetto perché siamo distinguibili da qualsiasi altra parte della Romagna, il nostro dialetto lo riconosci dal dittongo “ai”, poi mi saluta con un gran sorriso, mentre raccolgo lo zaino da terra e mi dirigo a passo svelto verso il B&B in cui andrò ad alloggiare.



Sono Floriana Dinoi, nata nel 1997, fotografa ed artista visuale le cui radici affondano nel sud Salento, a Manduria. Dopo gli studi in Didattica e comunicazione – presso l’Accademia delle Belle Arti di Bologna – ho preso una borsa di studio che mi ha permesso di frequentare una Biennale in Fotografia Contemporanea allo Spazio Labò. Ed è a Bologna che ho iniziato a lavorare nel mondo della fotografia pubblicando saltuariamente fotografie per il sito PhotoVogue e partecipando alla realizzazione di due mostre collettive con l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 2021 ho intrapreso un lungo viaggio per Città del Messico ed è proprio in questo viaggio che ho preso consapevolezza e iniziato ad interessarmi a  tematiche sociali, mettendo poi in pratica  progetti personali di fotografia. Successivamente a questo viaggio ho intrapreso il percorso scolastico della Jack London che mi ha fatto acquisire una consapevolezza maggiore sul mondo del reportage, dopo una preparazione teorica ho avuto l’opportunità di mettere subito in pratica quello che avevo studiato, svolgendo il progetto Un passo dopo l’altro – Un viaggio a piedi lungo la via Emilia.

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