#Blog EllePì – Sostenibilità e giustizia intergenerazionale: una questione non solo politica
La giustizia intergenerazionale è un concetto essenziale alla sostenibilità, ma è spesso definito in modo vago. Nel parlarne dobbiamo innanzitutto specificare la scala temporale di riferimento. Anche nel Rapporto Brundtland si parlava di “generazioni future” come di una grande massa indistinta. Ma il concetto tende a includere almeno quattro “popolazioni” differenti: i cosiddetti “giovani” (diciamo da Greta Thunberg ai venticinquenni), poi i “bambini” (diciamo dagli appena nati a Greta), poi le generazioni future non nate ma prossime a venire al mondo (i figli e nipoti delle generazioni presenti), e infine le generazioni future remote nel tempo, distanti centinaia di anni da oggi. Tutte queste generazioni saranno impattate negativamente dai cambiamenti ecologici. E tutte sono accomunate dall’avere poca e flebile, se non nulla, voce politica, e dal dover comunque conquistarsela. Come nel caso di Greta, magari – ovvero inventandosi forme inedite di auto-rappresentanza politica.
A parte queste analogie macro, però, ciò che generazioni future ma differentemente posizionate nel futuro affrontano e necessitano non è necessariamente analogo. Per ognuna di queste scale temporali corrispondono difficoltà diverse, si richiedono policy diverse, budget diversamente concepiti, e modalità diverse di gestirli. Questo porta alla questione della giustizia intergenerazionale, una questione complessa dal punto di vista concettuale, filosofico e pratico.
Ad esempio, la valuta della giustizia, per come di solito se ne parla, sono i diritti, e/o gli interessi fondamentali, e/o varie forme di equità. Nel caso delle generazioni temporalmente distanti, le prossime e le remote, è difficile riconoscere diritti a chi ancora non esiste e dunque non può né fruirne né pretenderne il rispetto. Sul versante degli interessi, non è invece sempre chiaro che interessi avranno le generazioni future – e già tra, diciamo, cinquant’anni (già mio nonno non avrebbe potuto immaginare che io non avrei potuto vivere senza telefonino – e oggi il tempo scorre più veloce, accelerato dallo sviluppo tecnologico globale). Possiamo, sì, avere una idea abbastanza chiara di quali siano le cose che sicuramente non vorranno – come una estinzione di massa o una vita di stenti e atrocità – ma in ogni caso dovremo decidere come giungere a soddisfarli nella miriade di casi specifici – le res singulares dove i principi e gli obbiettivi di massima incontrano le circostanze – e come allocare fondi e competenze in questa o quella direzione di volta in volta. Infine, quando si parla di equità, non potendo esservi reciprocità tra generazioni distanti nel tempo, uno dei fondamenti di ogni pratica reale di equità viene inevitabilmente meno.
Questo si accompagna ad un gap istituzionale ovvio. Non c’è ad oggi una istituzione per le generazioni future. L’unica esistente è l’Unesco, la cui missione è però principalmente quella di proteggere il passato a favore del futuro, non quella di intervenire per orientare il presente, cosa per cui non ha i mezzi politici. Non c’è una vera e propria istituzione, internazionale o nazionale, che li abbia: sono stati sperimentati pochissimi ministeri per il futuro, e solo brevemente, che lo rappresentassero come portatore di istanze sue proprie.
Date queste premesse, possiamo ben dire che non stiamo né lasciando un mondo migliore alle generazioni future né che stiamo ascoltando le loro voci, sonore come quelle di Greta o silenti come quelle dei suoi pronipoti. E anche se sicuramente non è facile interpretare le voci silenti di chi ancora non esiste, vediamo che i nostri sistemi politici non tendono neanche a strumentarsi per provarci. Non è chiaro cosa vorrebbe dire ascoltare le voci di chi ancora non esiste, più lontano andiamo nel tempo. Un tema perenne, eppure ultimamente ancora più rilevante, è il presentismo della politica, in particolare quella democratica. In democrazia, i governati sono anche governanti: chi non governa, o comunque non può iniziare e perseguire azione politica (incluso anche solo esercitando il proprio voto) non è oggetto primario degli interessi del corpo democratico. Gli interessi principali dei presenti sono inevitabilmente per il presente, o al massimo per il proprio futuro, il quale al massimo può includere un interesse per il futuro dei propri figli e nipoti – ma già quasi nessuno di noi pensa in termini propriamente politici al futuro dei propri pronipoti. Il presentismo è, inoltre, iscritto nei meccanismi procedurali democratici. I cicli elettorali sono rapidi, e dunque anche per occuparsi di futuro bisogna essere elettoralmente attraenti nel presente.
La questione ha ovviamente una sua traduzione economica. Quando calcoliamo che investimenti fare, tipicamente applichiamo un tasso di sconto sul futuro, deprezzando la sua rilevanza oggi. Facciamo questo (a livello individuale come di stati nazionali) perché diamo per scontato che il presente, se dato primazia rispetto al futuro, produrrà innovazione (tecnologica, culturale, istituzionale, gestionale) che poi appunto armerà il futuro, lo equipaggerà, compensando così per il deprezzamento. Il tasso di sconto sul futuro fu al centro di una diatriba tra due economisti di livello mondiale impegnati nell’articolazione della economia del cambiamento climatico: Nicholas Stern e William Nordhaus. Semplificando, Stern riteneva che il futuro dovesse valere solo l’1.3% in meno del presente, e che questa fosse in primo luogo una direttiva morale. Nordhaus riteneva, invece, che il tasso di sconto sul futuro dovesse essere estrapolato dalle reali preferenze dei reali cittadini/consumatori/investitori. Su queste basi, il tasso di sconto sarebbe da settare più o meno al 5%. Il futuro così deprezzato non ha rappresentanza politica, contano i presenti e le loro preferenze: se queste deprezzano il futuro – così ragionava Nordhaus – sarebbe immorale e illiberale forzarle in direzione opposta.
Quello che è evidente è che ci sono delle strettoie molto forti quando si tratta di prendersi cura del futuro, in particolare oggi. Alcune hanno a che fare con cattiva volontà, altre con organizzazione insufficiente o mancanza di competenza – ma molte sono strutturalmente legate ai meccanismi di funzionamento e principi ordinatori delle nostre democrazie e sistemi economici. L’intervento per il futuro appare dunque, inevitabilmente, come un intervento drastico sul presente, non solo un suo re-orientamento.
Da quanto detto, le difficoltà concettuali e pratiche che infestano il prendersi cura del futuro risultano chiare. E però, se anche noi non fossimo mai in grado di dire perché persone che ancora non esistono devono avere diritti; se anche noi non riuscissimo ad individuare i nostri obblighi verso il futuro perché i nostri sistemi concettuali non reggono la pressione e quelli legali non riescono a stare al passo – bisognerà comunque tenere presente un fatto psicologico importante. Molte delle cose che noi facciamo, al di là degli obblighi che potremmo avere verso altri, ricevono il loro significato e senso dal nostro pensare che, in qualche modo, saranno ricevuti da un futuro. Se ci si dicesse che un futuro non c’è, molti di noi perderebbero gran parte delle loro motivazioni ad agire oggi. In fin dei conti il significato delle nostre vite dipende, almeno in parte, da un futuro che le possa riconoscere come un lascito di valore. Pertanto siamo anche noi, non solo i nostri pronipoti, a perdere cose di grande importanza se non ci prendiamo cura del futuro.
Marcello di Paola è filosofo ambientale, ricercatore alla Loyola University of Chicago JFRC e presso l’Università di Palermo. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche nazionali ed internazionali su temi di etica e teoria politica, con un focus su cambiamento climatico, ambienti urbani, interazione fra sistemi naturali e sistemi tecnologici, e varie dimensioni del dibattito sull’Antropocene e sulla ricerca di senso in questa nuova epoca.