#TerraTerra – Piante spontanee e orti selvaggi dell’Umbria – 3a tappa
“Prima qui c’era tutto un greppo, mica c’era ‘sto giardino. Manu ha spianato tutto, ha portato un sacco di terra a cariolate”. Il dialetto umbro di Asia ricorda un po’ quello marchigiano, nonostante le sue radici siano in realtà toscane. Ci mostra il giardino intorno a casa sua, dove insieme al suo compagno Manu e i figli Aruna e Ayla, abita da più di sei anni. Qui a Pietralunga, nell’Alta Val Tiberina, ogni abitazione ha un nome con cui individuare il nucleo familiare appartenente. Se per tutti sono semplicemente Asia e Manu, Pagialla è il nome che li identifica nella valle, preso in prestito dall’omonimo cimitero a pochi chilometri dalla casa.
In questo luogo aleggia in effetti un forte sentire spirituale. Si percepisce subito, mentre arriviamo dalla strada sterrata in salita, e troviamo di fronte a noi una costruzione in pietra dall’aspetto singolare. “Questo è l’Ashram di Raidas, il papà di Manu, dedicato a Babaji. Prima era la chiesa della zona, che accoglieva i fedeli cristiani, poi quando è arrivato Raidas è stato trasformato in un tempio induista. Ora procede la sua funzione, accogliendo gli osservanti e i gruppi in ritiro di preghiera. C’è una struttura per ospitarli, e si organizzano giornate ed eventi dedicati, dove Raidas guida le pratiche spirituali”. Un tempio indiano, con icone e cimeli tradizionali, completamente ristrutturato seguendo le linee e i canoni dell’Ashram. La nostra curiosità ci porta ad entrare, scalzi, e osservare da vicino la struttura.
Veniamo subito accolti da un forte odore di incenso. Non c’è fumo, ma si intuisce che sia stato spento da poco. Quadri di santoni e iconografie religiose sono appese in entrambe le pareti. Tappeti cuciti a mano di diverse dimensioni sono disposti a terra lungo tutto il perimetro del tempio. A destra e a sinistra, in due insenature create sul muro, ci sono due statue, una raffigurante Gesù e l’altra la Madonna. “Raidas ha voluto lasciarle per rispetto di ciò che c’era prima di lui. Sono le uniche icone cristiane presenti”. È sicuramente singolare, immersi in quello spazio dalla forte simbologia induista, trovare le due rappresentazioni cattoliche, che sembrano osservare dai lati quel luogo, provando a sentirsi a proprio agio. In fondo, al centro della stanza, una piccola scalinata si affaccia su un baldacchino quadrato, sopra al quale si trovano alcune piccole statue di divinità induiste, che circondano una più grande al centro raffigurante Babaji. Ci muoviamo nello spazio, curiosi, osservando in silenzio quel luogo mistico, dimenticandoci per un attimo di essere sull’Appennino umbro. Le rappresentazioni spiccano per i colori, spesso dalle sfumature giallo-arancio e rosse, così come i tappeti ornamentali a terra. Le nostre preoccupazioni nel non toccare e non spostare nulla svaniscono, quando Ayla, la piccola di casa, corre sorridente verso una statua di Shiva e la accarezza, tentando di sollevarla. Ripresa da sua madre, ripone l’oggetto sulla mensola, nascondendo il suo sguardo vispo con una finta espressione di scoraggiamento. Decidiamo di uscire, Asia vuole mostrarci l’orto e iniziare a preparare la cena.
Fuori dal tempio, sulla sinistra, la struttura che ospita i credenti, con le camere e lo spazio comune con la cucina e i servizi. Tutt’intorno un prato tagliato fino e varie siepi di piante selvatiche a costituire il perimetro. Di fronte all’Ashram, un piccolo roseto composto da quattro arbusti protegge simbolicamente l’entrata. “Più tardi raccogliamo i petali insieme, così vi faccio vedere la preparazione dell’oleolito di rose“. Invita Asia, mentre passiamo davanti alla piccola isola rosa. “Ora venite in casa e appoggiate gli zaini, sarete stanchi”. Deve averlo capito dalle poche parole che finora abbiamo espresso e dal caldo afoso di questa giornata di inizio giugno. Siamo in cammino dalle sette e mezzo di stamattina. Partiti da Apecchio abbiamo attraversato Monte Maggio e proseguito verso Monte Splendore, rimanendo sempre in quota sugli ottocento metri. Dopo una breve pausa pranzo all’ombra di un abete, abbiamo proseguito scendendo verso Casa del Fattore, dove Asia ci ha incontrati e portati lì a Pagialla. I tratti all’interno della macchia boschiva, con l’ombra degli alberi e il vento debole che soffiava da est, hanno reso meno faticoso il sentiero, ma anche oggi abbiamo percorso una ventina di chilometri.
“Ayla!! Aruna!! Volete darmi una mano con i petali?” “Siiii!” Rispondono in coro i due. Attorno al tavolo in legno della cucina, Ayla e Aruna si dispongono a lato di Asia, come suoi adepti, pronti a togliere il corredo di petali alla rosa. Asia, con movimenti lenti e delicati, mostra ai figli la corretta esecuzione, guidandoli e spiegandogli il procedimento. Una volta tolti tutti i petali, vengono appoggiati in una cesta di vimini. Formano un soffice manto rosa, a contrasto con il marrone della cesta che li ospita. Solo allora Asia prende il barattolo di vetro, e inizia a disporre i petali all’interno, riempiendolo per metà. L’ultima parte consiste nel versare l’olio di oliva a riempire il barattolo, mescolando e cercando di spingere i petali verso il basso, così da completare l’emulsione. Questo procedimento lo compie Asia, mentre Ayla e Aruna seguono i suoi movimenti, curiosi e meravigliati. Vedere quei petali rosacei, mescolarsi con il liquido giallo viscoso, crea una magia materica nei loro giovani occhi, così come nei nostri. “Ora li lasciamo qui a macerare per una ventina di giorni, al buio. Una volta al giorno vanno mescolati, sbattendo il barattolo.” Ayla, svanita la magia e spostati i barattoli al buio, sembra intristirsi. Giusto il tempo di trovare un nuovo compito interessante. “Andiamo a costruire la casa per i gatti, così i piccoli possono riposarsi!” Propone Aruna, il più propositivo dei due. Senza pensarci due volte, Ayla si precipita dal fratello, già con il cartone in mano per predisporre le basi della nuova casetta felina. “Noi andiamo fuori” sorride Asia assistendo alla scena. “Vediamo se possiamo prendere qualcosa dall’orto per preparare la cena”.
Troviamo Raidas nell’orto, intento a raccogliere i piselli. Un cumulo di dreads grigi raccolti sulla testa e un paio di occhiali dalla montatura semplice nera, sostengono lo sguardo amareggiato con cui ci accoglie. “Hanno fatto un casino Asia, guarda” interviene indicando le reti divelte, messe a sostegno delle piante. “Porca troia, se so mangiati pure i piselli?” Chiede Asia preoccupata. “Qualcosa si…non tutto per fortuna. Saranno stati i tassi, i cinghiali, non lo so. Toccherà fare il recinto Asia.” Raidas sembra innervosito, seppur solo nella voce. La sua postura e i movimenti del corpo sono invece calmi e pacati, come se i due vivessero emozioni differenti. Chinato sulle piante, Raidas continua ad analizzare i danni. Una maglietta arancione e un tessuto dello stesso colore a coprire le gambe fino al ginocchio sono gli unici indumenti che indossa. “Io che sono sempre stato contro i confini, dovrò fare il recinto ora. Non c’è alternativa…” continua a rimuginare, mentre sostituisce la rete vecchia con una nuova. “Dai domani lo facciamo Das…”
Asia rassicura Raidas, iniziando a sistemare la rete, e aggiungendo pali di legno per sostenere la struttura. Giusto un rattoppo momentaneo, che permette la protezione per la notte, e lascia il tempo ad Asia di tornare a dedicarsi ai suoi estratti. In una credenza vicino alla cucina, estrae i flaconcini di vetro con l’apposito beccuccio contagocce. Meticolosa e vivace, Asia riempie i vari flaconcini, etichettandoli e imbustandoli, pronti per la vendita. “Questi li darò a una mia amica che ha un Bed & Breakfast, sono oli profumati per l’ambiente e per la cosmetica personale”. Ci mostra le varie etichette e ci lascia annusare i profumi intensi che emanano i flaconcini. “Questi invece sono per voi. Vi aiuteranno lungo il percorso”. Asia estrae dalla credenza due piccoli pacchetti, dai quali escono due flaconcini dalle forme e odori differenti. Un olio essenziale di lavanda e una tintura madre con elicriso e calendula. “Vi serviranno” assicura Asia, sorridendo bonaria ai nostri sguardi riconoscenti.
Un’amaca sospesa tra due alberi e un paio di sedie a sdraio sono sistemate in giardino. Il grande casolare, con il tetto spiovente, gli fa ombra creando una piccola oasi di pace. Al sole, accasciati sul prato, sono disposti dei grandi barattoli di vetro, come se si stessero preparando alla tintarella estiva. All’interno, si notano delle piante immerse in un liquido. Clotilde li prende, uno per uno, portandole in cucina. L’andamento sciancato, dovuto da qualche acciacco dell’età, le impone diversi minuti per completare l’operazione. Fa caldo, forse venticinque gradi. Una maglietta di cotone a maniche lunghe color porpora e una tuta, Clotilde è preparata al cambio di stagione. Una collana di pietre azzurre e un paio di orecchini, con fattezze simili, colorano e illuminano il suo viso. I capelli cinerei sono legati sulle spalle da un elastico. Appoggiati i barattoli sul tavolo, possiamo osservarne meglio il contenuto. Fiori di sambuco e spicchi di limone. L’acqua riempie il contenitore, mescolato con i vari ingredienti, si colora di giallo ocra.
Clotilde prende un gran pentolone, che sistema di fronte a sé sul tavolo. Movimenti lenti, ma precisi. L’esperienza è dalla sua. Prende una schiumarola dalla credenza, che appoggia di fianco al pentolone. L’espressione seria, austera. Apre il primo barattolo e versa il contenuto nel pentolone, filtrando con la schiumarola. In questo modo, i fiori di sambuco e i limoni vengono eliminati, facendo passare solo il liquido giallo ocra nel pentolone. I fiori e i limoni sono appoggiati su di un piatto, che in precedenza era stato posizionato sul tavolo. Così il primo barattolo è stato svuotato. Clotilde procede allo stesso modo con gli altri, e man mano che il liquido viene filtrato, vediamo il pentolone riempirsi sempre di più. A tratti, qualche fiore riesce a passare tra i fori, andando ad adagiarsi sul fondo della pentola. Mentre i barattoli si svuotano, Clotilde li sostituisce con delle bottiglie, anch’esse di vetro. Sarà lì che lo sciroppo, una volta filtrato, sarà riposto. Con l’aiuto di un piccolo imbuto, il liquido viene versato nelle bottiglie. L’odore di sambuco riempie la sala. La luce del sole, che entra da una finestra di lato, illumina il banco di lavoro con i limoni e i fiori protagonisti. Clotilde procede nell’operazione, riempiendo via via tutte le bottiglie e sigillandole bene con il tappo. Le dispone tutte in una bacinella che poi, porta in cantina, dove le conserve e le bevande sono sistemate in degli scaffali in legno. Lo spazio è poco, Clotilde armeggia tra gli scaffali, tirando fuori delle bottiglie e organizzandole diversamente. Sembra sia riuscita a trovare posto. Solo una bottiglia sembra di troppo. Clotilde si gira verso di me, sorride. “Questa ce la beviamo”. “Praticamente prendi un contenitore grande, tipo questo, lo riempi di terra fino ad un quarto del contenitore e lo semini. Io, per esempio, l’ho seminato a patate, vedi. Quando la pianta cresce, la rincalzi con la paglia e la copri. Procedi così fino ad arrivare in cima al contenitore. Facendo così, le foglie che a mano a mano cadono, marciscono, e creano altre radici. Una volta che la pianta in cima è arrivata, ribalti tutto il cassone e raccogli le patate”. Mentre Francesco mi spiega la coltivazione a cassone che ha applicato per le sue patate, Noa, il figlio di due anni, si aggira intorno a noi in cerca di fragoline di bosco. “Questa tua” dice Noa, offrendomi una piccola gemma rossa, frutto del suo raccolto. Ringrazio il piccolo esploratore dell’orto, dai folti riccioli biondi, e procedo con Francesco alla semina dei fagioli.
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Marta Sparvoli nasce a Fabriano nel 1998. Frequenta il corso di Didattica e Comunicazione dell’arte nell’Accademia di Belle Arti di Bologna trasferendosi nella città e partecipando alla realizzazione di due mostre collettive. Dal 2018 numerosi viaggi la portano ad interessarsi a tematiche sociali e antropologiche, iniziando progetti personali di ricerca fotografica. Nel 2020 frequenta la Scuola di letteratura e fotografia Jack London dove studia le tecniche di reportage. Attualmente è impegnata nel progetto di reportage fotografico Terra Terra.
Francesco Tavoloni nasce ad Ancona nel 1992. Si laurea in Lingue e Culture Straniere a Roma nel 2017. Nei suoi viaggi utilizza la scrittura come metodo di ricerca ed espressione. Si avvicina al reportage a Lisbona, dove vive e lavora fino al 2019, producendo il suo primo documentario, dal titolo “Un Giorno Felice”. Nel 2020 frequenta la Scuola di letteratura e fotografia Jack London. Attualmente impegnato nel progetto di reportage Terra Terra.