Seminario Accoglienza 2013 – Introduzione del Presidente Gabriele Gabrielli
Fuori della prospettiva dell’accoglienza non c’è intelligenza,
ma solo individualismo e ὕβϱις *
di Gabriele Gabrielli, Presidente Fondazione Lavoroperlapersona
Saluto e ringraziamenti
Buona sera a tutti e benvenuti al secondo Seminario Interdisciplinare sull’Accoglienza. Vi ringrazio di cuore per questa vostra presenza, per noi tutti ha il significato di un forte incoraggiamento per continuare a organizzare la presenza della Fondazione Lavoroperlapersona nei campi dell’educazione, ricerca e promozione culturale. Un grazie particolarmente riconoscente lo devo ai circa trenta accademici, studiosi, professionisti e imprenditori che hanno aderito al programma di questa edizione. Un grazie davvero sentito, come sempre, va al Sindaco di Offida e all’Amministrazione comunale tutta, per il sostegno convinto che assiucurano ai programmi e alle iniziative della Fondazione.
L’idea del Seminario
Ho condiviso l’idea di questa edizione un anno fa con Andrea Granelli, Direttore scientifico del seminario. Lo ringrazio per il lavoro che ha svolto e anche per la convinzione con cui ha aderito alla proposta. Devo dire che il progetto ci sembrava allora, e rimane anche oggi, indubbiamente ambizioso. L’ambizione sta soprattutto nella “provocazione” contenuta nel titolo del seminario. Dopo aver individuato gli “ambiti” della nostra riflessione, cioè i Territori, le Città e le Imprese, infatti, il titolo ci interpella su una scelta, ponendo in contrasto due opzioni, una sorta di aut-aut non negoziabile che sembrerebbe affermare che i Territori, le Città, le Imprese o sono smart o sono accoglienti. La provocazione evidentemente sta nell’uso della congiunzione “o”. Come dire che non vi è un’altra possibilità, una diversa via. O l’una o l’altra. Tertium non datur!
Non crediamo naturalmente che questa sia la realtà possibile. Crediamo che la congiunzione “o” possa e debba essere sostituita. Si può essere smart e accoglienti nello stesso tempo. Questa scelta però ci è sembrata un espediente efficace, con la sua evidente “forzatura”, per andare dritti all’obiettivo della proposta seminariale. Per noi, infatti, è importante risvegliare coscienza critica su questi aspetti che s’intrecciano su diversi piani in modo complesso. “Risvegliare” può apparire in verità un’espressione politicamente non corretta, perchè può sembrare contenere già un giudizio. Riformulo allora il pensiero dicendo che per noi è importante mantenere alta l’attenzione su questo punto, sollecitando un pensiero vigile sulla relazione tra la tecnologia (e le meravigliose opportunità che ci offre) e l’umanità, tra innovazione e persona. E’ questo dunque il contesto autentico della domanda: smart o accoglienti? Insomma, ci piacerebbe che l’intelligenza con cui stiamo riempiendo territori, città, imprese fosse concepita sempre a servizio della persona e trovasse un limite invalicabile proprio nel suo rispetto e valore.
Le domande di fondo
Le domande di fondo del seminario potrebbero essere queste:
- stiamo mettendo tutti la giusta attenzione, quando progettiamo territori, città e imprese a questo aspetto?
- ci stiamo preoccupando che le modalità attraverso cui implementiamo questo progresso – in senso esteso – siano accoglienti?
- cosa dovremmo fare per andare in questa direzione?
Sono questioni, evidentemente che – in coerenza con lo spirito dei nostri seminari – interpellano più ambiti disciplinari, coinvolgendo ogni livello dell’agire umano: dalla politica all’azione di governo, dalla ricerca all’impresa, dalla sfera educativa a quella del management. Nella nostra prospettiva, perciò, l’accoglienza non può essere un’opzione residuale; qualche cosa cioè che viene dopo, alla fine o durante i lavori. Crediamo invece debba essere collocata a monte, quando s’inizia un’impresa, far parte e avere un ruolo importante nella sua progettazione. L’accoglienza, insieme ai suoi molteplici attributi come l’ascolto e la prossimità, dovrebbe addirittura ispirare la progettazione, costituirne l’incipit.
E’ questa la speranza che nutriamo. Una speranza che diventa linea guida per l’impegno della Fondazione e che è alla base del secondo seminario che stiamo aprendo.
Il tempo che viviamo
Abbiamo pensato che il tempo che viviamo fosse quello giusto per proporre questo tema e, soprattutto, questa prospettiva. La nostra, infatti, è un’epoca smart o che vorrebbe essere tale. La parola suscita un fascino straordinario. Sin da piccoli, perchè si è smart anche a scuola; si è smart anche quando si cresce e si diventa adolescenti, giovani; e si continua a voler essere e giudicati smart anche quando diventiamo adulti. Anche sul lavoro è bene essere smart; quando vogliamo ingaggiare qualcuno in un progetto, in definitiva, ci interessa capire quanto la persona che abbiamo di fronte sia smart. L’essere smart, con le sue ambiguità, è onnipresente. E’ diventata categoria dominante della teoria e della pratica, forse addirittura un paradigma. Sta producendo, come sempre accade, anche le sue retoriche, dominando ogni linguaggio. D’altro canto, ci viene naturale ormai distinguere oggetti, manufatti e prodotti tra quelli smart e quelli che non lo sono. Per questi ultimi immaginiamo un futuro di progressiva scomparsa, un destino di “scarto”, di rottamazione. Nelle migliori ipotesi di riuso.
Guardiamo anche ai prodotti sociali – in senso esteso – con le lenti di questa categoria. Le istituzioni, l’università e la scuola, le organizzazioni, le leadership, ormai, ci appaiono smart o il contrario; quando non lo sono diventano non desiderabili, da non seguire, da evitare. In quest’epoca, si sa, le cose o le vite non invidiabili hanno poco valore. Questo accade anche per i territori, intesi come comunità di legami e esperienze culturali, sociali e economiche. Ma accade anche per le città e per le imprese la cui attrattività, almeno in parte, dipende dall’essere percepite imprese smart. Devo precisare che alla Fondazione Lavoroperlapersona interessa approfondire questa prospettiva soprattutto in una chiave educativa, perché riteniamo che l’oggetto della nostra riflessione rivesta un significato particolare e importante per la formazione delle nuove generazioni; ma sappiamo che è una riflessione ineludibile anche per gli adulti. Perché crediamo in altre parole che quella dell’accoglienza sia una prospettiva costitutiva della cittadinanza responsabile.
Con queste tre giornate, allora, vorremmo dare un contributo:
- per sviluppare pensiero critico e accrescere consapevolezza sul tema
- per lavorare affinchè l’abbondanza d’intelligenza di cui disponiamo diventi abbondanza inclusiva. Diventi cioè ricchezza per tutti.
L’umanità non separa, ma accoglie. Bisogna uscire dal guscio in cui c’isoliamo
Voglio fare un esempio, perché è mio compito chiarire meglio e condividere con voi la prospettiva attraverso cui la Fondazione guarda a questi temi. Dunque, sapete tutti che c’è un fiorente dibattito intorno al ruolo delle grandi città, le metropoli. Molti sostengono che in futuro il governo del mondo si concentrerà in alcune decine di grandi metropoli; per altri in poche centinaia. Un vero e proprio trionfo. Il trionfo delle città è il titolo evocativo di un libro, da poco pubblicato in Italia, scritto dallo studioso di Harvard Edward Glaeser.
Ci sono evidenze, poi, che supportano l’idea che ci sia una sorta di nuovo processo di urbanizzazione: chi vi sarà dentro parteciperà al nuovo benessere, chi sarà fuori no. Queste città, infatti, svilupperanno per esempio maggiore istruzione e diventeranno un concentrato di talenti. Saranno il luogo da dove nascerà una classe dirigente universale interconnessa solo con le altre mega-città, mentre sorvolerà tutto il resto del mondo senza badarvi. Saranno queste città a governare gli Stati (già da qualche decennio in difficoltà, come sappiamo), forse governeranno anche le realtà sovranazionali. Altri studiosi ci mettono in guardia da pratiche urbanistiche e da un uso della tecnologia che, insieme, possono concorrere a costruire quella che – in un altro recente saggio, scritto da Bernardo Secchi – viene chiamata La città dei ricchi e la città dei poveri.
Questa discussione intorno alle divisioni, quelle tra ricchi e poveri, tra privilegiati e “sfigati”, tra persone smart e non, mi ha fatto tornare in mente nei giorni scorsi uno scritto di don Lorenzo Milani, l’irriducibile priore di Barbiana e la sua scuola, raccolto nel libro L’obbedienza non è più una virtù. Siamo a metà degli anni cinquanta e in una lettera don Milani affronta una tematica per l’epoca molto critica: ossia, le diverse condizioni in cui sono costretti a vivere “i giovani di montagna e i giovani di città”; proprio così s’intitola la lettera pubblicata da un quotidiano toscano nel 1956. E’ uno scritto appassionato, dove don Milani – “maestro” e “prete” come si definiva – discute sull’importanza dell’”istruzione”. La chiama così precisando però che deve essere intesa “in un senso più largo, comprensivo di tutto ciò che è elevazione interiore”. Don Milani ha a cuore “la sofferenza dei disoccupati e dei senza tetto”, ma vuole andare oltre. Combatte il pregiudizio riguardo la presunta superiorità degli uni – quelli di città – rispetto agli altri. Anche per questo rivendica con forza che l’istruzione è un bene particolare, non è come il pane, perché l’uomo non vive di solo pane. Per zittire il pregiudizio e a tutela dei suoi ragazzi, argomenta quanto sia importante però anche la conoscenza non prodotta dai libri, quella sviluppata dai suoi allievi di montagna grazie alla concretezza della vita nel bosco, alla fatica imposta dagli stenti e all’umanità del vivere in una comunità piccolissima abbarbicata sulle montagne e non connessa – oggi diremmo – ma forte nei legami e accogliente. Scrive così a un certo punto: “Voi di città vi passate accanto senza sapere neanche il nome l’uno dell’altro. Suona a morto e non ve ne accorgete, se non suona pei vostri. Passa un trasporto e non sapete chi è morto, come è morto, se ha lasciato dietro di sé pianto e litigi. Che cosa volete dunque saperne della vita all’infuori del ristretto cerchio di casa vostra o di quello dei libri che leggete e vi ingannano perché di solito li ha scritti gente isolata nel guscio come voi?”
Qualche giorno fa, mentre prendevo qualche nota per questo intervento, Papa Francesco ha scritto un tweet che sembrava rilanciare – solo nella mia mente naturalmente – il brano di don Milani. Il 14 settembre Bergoglio scriveva così, con la sua straordinaria semplicità: “A volte si può vivere senza conoscere i vicini di casa: questo non è vivere da cristiani”. Altri tempi quelli testimoniati da don Lorenzo Milani, è vero. Forse “le condizioni di inferiorità e d’umiliazione” che i giovani di montagna erano costretti a subire rispetto ai giovani di città sono state “rimosse”, come vorrebbe la Costituzione. Forse però nel frattempo ne sono nate altre. Magari altre ancora si stanno sviluppando senza tanti clamori. I profeti, del resto, sono tali perché con le loro parole riescono sempre a gettare luce su storie successive. E’ una sapienza che va meditata con cura.
La tecnologia da sola non basta. L’essere smart passa per il riconoscimento dell’altro
Per questo crediamo che l’intelligenza, dovunque essa sia, non possa essere utilizzata per dividere, per segregare, per sviluppare quella paura che rompe la solidarietà e fa emergere intolleranza e pregiudizio. Per questo crediamo occorra investire continuamente per rimuovere le condizioni di ineguaglianza: vecchie e nuove. Per questo, crediamo anche che un mondo interconnesso tecnologicamente sia una grande e straordinaria opportunità per migliorare la vita. Per accelerare lo sviluppo del benessere: almeno di una parte. Perché la tecnologia non ci toglie di per sé dal guscio dei nostri interessi particolari, non ci corregge dalla miopia propria di prospettive non inclusive. La tecnologia da sola, infatti, non basta. Il dominio della téchne ci porterebbe soltanto fuori dall’umanità.
Ci piacerebbe allora che essere smart evocasse con convinzione la dimensione dell’accoglienza. Vorremmo che la parola smart ne richiamasse un’altra: inclusione. Smart e accoglienza – ne siamo convinti – devono e possono andare insieme, perché al di fuori della prospettiva dell’accoglienza non c’è intelligenza, ma solo individualismo e ὕβϱις. Approcci, politiche, pratiche senza accoglienza non sono smart, ma solo fragili e tracotanti. Chi si sentirebbe in cuor suo di valutare “intelligenti” leggi, piani, business plan, politici e amministratori, imprenditori e manager, docenti ed educatori, che usassero le opportunità straordinarie della tecnologia per marginalizzare, separare, disgregare persone, comunità, generazioni, popoli? L’essere smart passa per il riconoscimento dell’altro, mette al centro la questione dei beni comuni, accoglie in pieno la persona e si fa carico delle sue fragilità.
I territori, le città, le imprese, allora, quando sono smart? Sono smart quando si pre-occupano, cioè pensano prima, anche alle conseguenze delle loro azioni in questa prospettiva. Per questo è importante sviluppare quel pensiero critico da cui sono partito, per facilitare la costruzione delle condizioni culturali, sociali ed economiche affinchè i territori, le città, le imprese – ossia i luoghi dove l’uomo decide di stare insieme ad altri – possano essere considerati “sani”. Nella nostra visione sono “sani” quando consentono di dispiegare pienamente la nostra umanità.
Grazie ancora per essere qui. Buon seminario a tutti.
* Intervento di apertura di Gabriele Gabrielli, Presidente della Fondazione Lavoroperlapersona, al 2° Seminario Interdisciplinare sull’Accoglienza (“Territori, Città, Imprese: smart o accoglienti?”), Offida, 19-21 settembre 2013.