Un passo dopo l’altro: viaggio a piedi lungo la via Emilia – 3a tappa: Castelfranco Emilia – Modena

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La prossima tappa è Modena. Decido di fare una deviazione lungo i colli bolognesi per non passare dalla statale, e sulla mia destra scorgo quattro vacche, mentre sulla sinistra si stende una grande vallata con piccole case che mi accompagnano verso il paesino di Castelfranco Emilia. A osservarle mi fanno venire in mente un passo del libro di Rebecca Solnit: “Quando ci concediamo ai luoghi, essi ci restituiscono a noi stessi e, più arriviamo a conoscerli, più vi seminiamo l’invisibile messe delle memorie e delle associazioni che saranno lì ad aspettarci quando vi ritorneremo, mentre luoghi nuovi ci offriranno pensieri nuovi e nuove opportunità. Esplorare il mondo è uno dei modi migliori per indagare la mente, e il camminare percorre entrambi i terreni”. La via che ho intrapreso è una strada secondaria che porta lungo i colli segue il letto di un torrente, incrociando sobborghi e oltrepassando lunghi edifici di fabbriche e industrie, con auto e moto posteggiate, villette separate da alti pergolati che ombreggiano lungo la strada sterrata, una vicina all’altra.

Giunta verso Castel Franco Emilia, con un po’ di difficoltà mi fermo davanti a un grande casolare di allevamento vacche, dove Giulia Lepri mi riceve ospitale. E’ una dottoressa veterinaria specializzata in podologia, mi spiega che questo tipo di lavoro è ancora poco conosciuto in Italia, un lavoro che fino a dieci anni fa era considerato solo un lavoro maschile perché non esistevano le “podologhe”, sono solo quattro donne in Italia a svolgere questo lavoro, lei è una di loro. “La podologia tanti anni fa era eseguita da persone laiche, ovvero persone che non sono dei veterinari ma prendevano il nome di “maniscalco bovino”, mentre i veterinari sono dei podologi. Ancora sono presenti alcuni maniscalchi, l’unica distinzione è il livello di studi e di preparazione”.

Giulia, Stefano e Francesco mi spiegano che il podologo bovino ha subito un’evoluzione con nuovi ruoli e responsabilità. I benefici in generale sono la cura del piede che è strettamente connessa a produttività e alla fertilità della mandria; e se una volta il podologo aveva come compito la cura del singolo animale zoppo e la prevenzione su piccoli gruppi oggi, invece, deve estendere il suo lavoro all’intera mandria, e questo tipo di trattamento viene eseguito ogni sei mesi. La tecnologia e l’arrivo nel settore di figure femminili sono strettamente collegati, perché grazie all’aiuto dei travagli (dove viene eseguito il trattamento delle unghie ai bovini) di anno in anno sono diventati macchinari sempre più veloci e in grado di alleviare la fatica dell’operatore; inoltre, sono apparse sul mercato attrezzature per il taglio sempre più efficienti. “Tutte le vacche passano all’interno di un liquido chiamato Bagno Podale che pulisce il piede e lo disinfetta per prevenire le dermatiti, la dermatite è infettiva e tendenzialmente si ha in questo tipo di ambiente umido, ecco perché bisogna eseguire periodicamente un controllo” racconta Giulia.

Giulia mi spiega che negli anni precedenti si utilizzava solo la tenaglia e il coltello, era un lavoro molto più fisico con posture scomode, anche il travaglio era del tutto manuale, e il pericolo di farsi male era molto più frequente rispetto ad ora con l’evoluzione della tecnologia. La pericolosità era molto più frequente rispetto ad adesso, Stefano invece racconta che nel corso di questi anni di lavoro ha avuto un trauma cranico, un trauma toracico e si è rotto le costole almeno un paio di volte, per via dei calci delle vacche, la fresa che può scappare dalle mani e tagliare, quando alza la maglietta e mi mostra tutte le sue cicatrici. In questi ultimi anni, la sensibilità dell’opinione pubblica sulle condizioni di vita degli animali negli allevamenti e cresciuta sempre di più; molti caseifici e aziende che lavorano. Il parmigiano reggiano richiede agli allevatori che vengano rispettati i criteri per il benessere dell’animale. Il benessere negli allevamenti bovini è, quindi, in parte a carico del podologo mi spiega Giulia, che ne diventa, appunto, anche responsabile.

L’allevatore Roberto viene verso di me spiegandomi come fa a mantenere questo posto da quasi sessanta anni: iniziamo a fare un giro della stalla dove ci sono in tutto 290 capi tra vacche e vitelli. Mi spiega la suddivisione delle vacche dalla nascita alla crescita, i primi dieci vengono isolate, e successivamente spostate in gabbie molto più grandi, fino ai novanta giorni viene dato solo latte, mentre dopo iniziano a mangiare solo fieno e mangime, e già a 24 mesi possono iniziare a produrre il latte, che verrà controllato due volte al giorno e fatto fermentare per circa dieci giorni. Prima di mandarlo al caseificio c’è il controllo della qualità, e se risulta in ottimo stato si può procedere all’utilizzo per la produzione del parmigiano reggiano. “Il benessere delle vacche dipende dalla struttura in cui si ritrovano, ecco perché passo 24 ore su 24 all’interno di questa struttura, per garantire loro tutto il benessere possibile, fanno circa trenta chili di latte al giorno, e la mungitura avviene ogni dodici ore circa, per fare dell’ottimo parmigiano occorre dell’ottimo latte e per ottenere ottimo latte dobbiamo occuparci di comprare dell’ottimo fieno”. La stalla è di conduzione famigliare, questo lavoro va avanti da quattro generazioni: “il parmigiano reggiano è tradizione di famiglia e gli allevatori son vecchi come il parmigiano reggiano” mi spiega. Uscendo dall’allevamento mi dirigo verso il paese di Castel Franco Emilia, ormai è tardi e devo proseguire, sono troppo stanca, vado a rifugiarmi in un hotel che incontro lungo strada.

Appena sveglia e pronta per lasciare Castelfranco, proseguo una via dritta via, arrivo a una periferia dove imbocco uno sentiero stretto che porta nel bosco, poi attraverso una piccola vallata, pochi casolari aggiungono fascino alla scena selvaggia; e ancora, fra il denso fogliame, magnifiche apparizioni di alberi fitti. Mentre la mia sosta di mezzogiorno sta per avvicinarsi e il caldo è molto fastidioso vado in un piccolo paesino affiancato a Castelfranco Emilia, dove mi fermo e incontro Roberto Colombini, il quale mi invita gentilmente a prendere qualcosa da bere, poi comincia a raccontarmi che ha iniziato i suoi studi nel campo Bonsai, come autodidatta, possedendo già una collezione privata. Ha vari riconoscimenti in questo campo, e nel 2001, ha studiato nella scuola d’arte Bonsai di Hideo Suzuki e partecipato al corso di giardini giapponesi. “E’ dal 1982 che mi occupo di Bonsai e attualmente gestisco un attività imprenditoriale riguardante la progettazione e realizzazione di terrazzi e giardini nei vari stili prediligendo quelli inglesi, giapponesi e la loro relativa manutenzione” mi spiega. Oltre a questo, organizza dei workshop e lezioni per i ragazzi, per avvicinarli in modo sensibile alla natura millenaria dell’arte del bonsai. “Il bonsai è l’arte di coltivare piante in vaso per creare una perfetta rappresentazione della natura in miniatura e ha una lunga storia: Originaria dalla Cina, questa pratica di creare piccoli alberi appariva già nel VI secolo, la crescita dell’albero è caratterizzata da anni di potatura, reimpianti e innesti. Le piante devono essere controllate assiduamente e annaffiate ogni giorno, spesso i bonsai sono piegati e contorti nella forma, posizionati intorno alle rocce.Tra le abilità più difficili da possedere quando si coltivano queste piante, spiega, c’è la pazienza, il bonsai non solo cresce ma cambia a seconda di quanto lo ami e lo curi, “se si piantano, possono passare 3 anni prima che formino delle radici e 5 prima che comincino a crescere”.

In questo lavoro il tempo e la devozione sono diversi da qualsiasi altra forma d’ arte, alcuni dei più preziosi bonsai hanno più di ottocento anni, i vasi e gli strumenti utilizzati sono spesso fatti a mano e il costo può essere più elevato. Questi alberi sono delle vere e proprie opere d’arte per la loro straordinaria, antica e silenziosa bellezza. Sto per salutarlo e proseguire, ma intorno c’è un panorama mozzafiato, l’ampiezza e la profondità di una valle incantata, sta per uscire il tramonto, così decido di restare, piantare qui la mia tenda.

L’alba del giorno dopo mi sveglia uno stormo di piccioni, e dopo di loro i versi delle galline e l’abbaiare dei cani, decido di andare a visitare il paese. Arrivata a Modena penso che sarebbe bello camminare ancora, ma in realtà è meglio farsela in una corriera questo pezzo di geografia: troppe automobili lungo la statale che mi girano intorno, qui la strada non ama i pedoni. Non mi sono arresa a un mezzo di trasporto, in realtà, vorrei continuare a ‘vagabondare per la campagna a piedi’: la fermata è lungo la statale, mi fermo per qualche minuto d’avanti ad una azienda di telefonia mobile. Salendo sulla corriera non perdo d’cocchio il territorio circostante, le trasformazioni visive ambientali, culturali e sociali di un territorio, incontrando lungo il percorso paesaggi rurali e grosse aziende. Durante la controra, ferma su un sedile con la macchina fotografica appoggiata lungo il finestrino il mio sguardo si concentra sui passanti di questa via: lo sfondo è quasi sempre lo stesso, territori marginali, rurali e industrie. La fermata è Rubiera, stare in mezzo ad una strada penso non sia prudente, meglio fare qualche metro in più e spostarmi verso il gruppo di case vicine.

Ritornando sulla periferia mi dirigo verso la statale per Reggio Emilia, costeggio il fiume prende quelle movenze e quelle forme che un po’ aspettavo: una roccia che si stringe verso la riva, gli alberi fitti che sanno già di muschio e di bosco, e davanti a me, poco distante, la sagoma solida di una piccola pieve. Un campo inframmezzato da qualche macchia di alberi, erba ovunque, comincio a camminare per un campo di grano sperando di capire qualcosa di ciò che percorro e cosa mi spetta più avanti: sono ritornata tra le case, strade e templi, me ne sto su un lato della strada, quello destro, cercando di non oltrepassare mai la linea bianca, nel frattempo incontro un uomo trainato da un cavallo con un cappello largo color rosso e la tunica al ginocchio. Mi guarda con insistenza. In questo paese chi viaggia a piedi viene visto come una specie di selvaggio – così mi sento – e per questo che vengo squadrata da capo a piedi, sospettata e scansata da tutti quelli che incontro.

Arrivata al centro di Reggio Emilia, lascio la città continuando verso nord, un grande casolare con la scritta “Ospedale”, un signore lungo la strada mi spiega che questa non è una clinica ma un centro d’accoglienza per pellegrini, ormai chiuso da circa cinque anni. Un passo dopo l’altro, lo sguardo fisso sullo stesso orizzonte, stesse creste di colline, con lo stesso fiume giù a sinistra, un profondo burrone pieno di edera e un mulino. Son le due del pomeriggio, una costante brezza si fa sentire fra questi ombrosi alberi che rendono tollerabile questo caldo fastidioso.

Arrivo nella periferia di Reggio Emilia dove incontro Ivan, all’interno della Casa del Viandante, dove alloggerò questa notte. Ivan mi aspettava nella sua rustica e antica dimora e gentilmente mi offre una cena di fagioli e uova. Non è un ragazzo troppo loquace, ma la sua semplice ospitalità l’ho molto gradita. Decidiamo di fare una passeggiata lungo una collina che si trova nei pressi della Via Emilia, scenario stupendo e solite balle di fieno lungo tutta la distesa, fermandoci lì per un po’. E’ stupito dal racconto del mio cammino, pensa che non sia possibile attraversare tutta la statale a piedi, mi ripete spesso che è molto pericoloso e che avrei bisogno di affiancamento.

E’ una strada che faccio tutti i giorni in macchina per andare a lavoro, negli ultimi vent’anni ho visto molti cambiamenti, prima era un territorio prevalentemente rurale, fatto di campagna e fattorie, ora un territorio ormai globalizzato, ci sono anche molti stabilimenti, grandi industrie e aziende artigiane.” Mi spiega che in passato tutta la Via Emilia era costeggiata da miliari, pietre che erano poste ad ogni miglio della strada per dare indicazioni, purtroppo non più esistenti. Ivan è un ragazzo simpatico, un gran lavoratore, fa più lavori contemporaneamente per sbarcare il lunario, e attualmente gestisce il B&b “Casa del Viandante” sulla Via Emilia, quando non è in viaggio, infatti, è un nome che rende alla perfezione il suo stile di vita, perché da più di dodici anni percorre cammini in tutto il mondo.



Sono Floriana Dinoi, nata nel 1997, fotografa ed artista visuale le cui radici affondano nel sud Salento, a Manduria. Dopo gli studi in Didattica e comunicazione – presso l’Accademia delle Belle Arti di Bologna – ho preso una borsa di studio che mi ha permesso di frequentare una Biennale in Fotografia Contemporanea allo Spazio Labò. Ed è a Bologna che ho iniziato a lavorare nel mondo della fotografia pubblicando saltuariamente fotografie per il sito PhotoVogue e partecipando alla realizzazione di due mostre collettive con l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 2021 ho intrapreso un lungo viaggio per Città del Messico ed è proprio in questo viaggio che ho preso consapevolezza e iniziato ad interessarmi a  tematiche sociali, mettendo poi in pratica  progetti personali di fotografia. Successivamente a questo viaggio ho intrapreso il percorso scolastico della Jack London che mi ha fatto acquisire una consapevolezza maggiore sul mondo del reportage, dopo una preparazione teorica ho avuto l’opportunità di mettere subito in pratica quello che avevo studiato, svolgendo il progetto Un passo dopo l’altro – Un viaggio a piedi lungo la via Emilia.

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