Blog EllePì – Trasformare i confini in limiti: dai muri che dividono agli orizzonti che uniscono

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di Silvia Pierosara

Nella memoria collettiva la caduta del muro di Berlino segna il trionfo della libertà, il superamen-to di un mondo che si reggeva sulla polarità amico-nemico; un tassello mancante, tuttavia, inspie-gato o taciuto, rende ancora più incredibile il proliferare dei nuovi muri che separano i popoli po-veri da quelli ricchi. Lungi dall’essere stata accantonata per sempre, la logica amico-nemico sem-bra essersi diffusa e moltiplicata adattandosi ai contesti e alle diverse geografie.
Per poter colmare quella mancanza rendendone ragione, bisogna prima di tutto capire fino in fondo il significato e la funzione dei muri, mettendoli in relazione con le idee di confine, limite, orizzonte. È Immanuel Kant che nei Prolegomeni distingue in modo illuminante tra limiti e confi-ni: «I limiti [Grenzen] presuppongono sempre uno spazio, che si trova fuori di un certo determina-to luogo e lo racchiude; i confini [Schranken] non hanno bisogno di ciò, ma sono semplici negazioni che affettano una grandezza, in quanto non ha completezza assoluta. La nostra ragione vede, per così dire, intorno a sé uno spazio per la conoscenza delle cose in sé, sebbene non possa mai averne concetti determinati e sia confinata soltanto entro fenomeni» . La distinzione ricorreva anche nel-la prima Critica e l’immagine icastica dell’isola circondata dall’oceano in tempesta ne testimonia la rilevanza.
La suggestione kantiana autorizza a pensare i limiti come altrettante possibilità del loro oltrepas-samento, a riferirsi a essi come a un orizzonte altro che addirittura è la casa di ciò o di chi vive dentro quegli stessi limiti. I confini, viceversa, stabiliscono in modo irrevocabile, nella rigidità del loro darsi, identità bloccate, oltre alle quali è impossibile intravedere alcunché, sprofondate in una solitudine senza tempo e senza spazio. Mi sembra che oggi i muri somiglino pericolosamente ai kantiani confini, e che non abbiano quasi nulla in comune con i limiti, che lasciano invece presup-porre uno spazio altro, terzo, un luogo di incontri possibili, di rinegoziazione di significati e sensi.


I trent’anni che si estendono dal crollo del muro ai giorni nostri, tempi di muri immaginati, invoca-ti, promessi e realizzati, hanno reso visibile e concreto quel «furore di distinguersi» che secondo Rousseau era l’origine dei tutti i mali dell’umanità. I muri hanno assunto una rinnovata funzione geopolitica, volta essenzialmente a preservare uno status quo, alimentando paure ed essendo da esse alimentati, in un circolo vizioso in cui emergenza, marginalità ed esclusione sono funzionali e vanno mantenute in quanto tali. Le migrazioni, invece, non sono emergenze, sono piuttosto una costante nella storia dell’umanità, che non può vivere gli spazi nella forma della proprietà esclusi-va, ma deve piuttosto riconoscere a questi ultimi lo statuto di beni relazionali.

Silvia Pierosara, docente di Filosofia Morale presso l’Università di Macerata

Il muro come confine rappresenta un pieno, un troppo di realtà; siamo abituati a pensare alle feri-te come ad altrettante fessure, come a un togliere, piuttosto che come a un aggiungere. Nel caso dei muri – ferite che dividono città, paesaggi, relazioni – si tratta invece di un riempimento, di un troppo, di un confine che somiglia a un cordone sanitario volto a evitare la contaminazione, nel nome, sempre più spesso invocato, della sicurezza e di una gestione improvvisata della cosiddetta “emergenza migranti” . Contaminazione e sicurezza vanno spesso insieme: laddove si inneggia al-la sicurezza, lo si fa in nome dell’evitamento di una contaminazione fisiologica, culturale, simboli-ca, immaginaria: come se la guerra, la povertà, la fame fossero epidemie da cui difendersi.
Se i muri sono confini materializzati, barriere fisiche che impediscono il flusso e il transito dei cor-pi, essi hanno il potere di agire sui vulnerabili che, dal canto loro, possono contare solo sul proprio corpo per resistere ed emanciparsi . Il controllo dello spazio diventa allora controllo della dimen-sione corporea, dei corpi come oggetti da possedere, da gestire, da considerare emergenze. Ap-pare allora evidente che il nostro tempo è il tempo dell’acuirsi di una contraddizione forte tra la virtualità dello spazio immateriale e l’iperrealtà delle barriere che agiscono sui corpi degli ultimi, di un dualismo antropologico accentuato fin quasi alla paradossalità.
Se i muri si costruiscono per proteggere, difendere, preservare le identità dalla contaminazione, occorre chiedersi quale idea di identità si nasconda dietro alle barriere. Si tratta dell’idea di un’identità scissa, che non riesce a vivere in modo pacificato la relazione tra mente e corpo, tra virtualità del pensiero, quasi ubiquo, e l’iperrealismo dei corpi che cedono ai confini, che lasciano le tracce delle loro speranze nei roventi deserti del mondo. Si tratta anche dell’idea di un’identità monolitica, assoluta, senza prospettive, non dialogica, che nega le aperture, che vive nel timore regressivo della perdita di una proprietà e non si apre alla novità dell’ibridazione. Chi fa politica costruendo muri non sogna più, ma si difende aggrappandosi a un sistema autoreferenziale im-mobile e semplificante. Chi invoca i muri come unica strategia di sopravvivenza utilizza una se-mantica negativa, contenitiva, di nuovo regressiva e difensiva, e fa leva sulla paura del contagio attingendo ampiamente a una metaforica sanitaria e biologica. Lo spazio è invece un bene rela-zionale, mai totalmente appropriabile e condizione di possibilità delle relazioni.
Il limite kantiano dice di uno spazio che a sua volta è ospitato da un orizzonte ampio, da una dimo-ra altra, ignota ma possibile, forse reale. Come la musica che riempie lo spazio sopra i muri – il pensiero va al concerto di David Bowie a Berlino Ovest nel 1987 –, che circola valicando i confini e che è capace di trasformarli criticamente in limiti, così la letteratura e il cinema hanno il potere di raffigurare connessioni immaginate tra mondi altrimenti rigidamente ripiegati su di sé. Di un’intensità inafferrabile, nel primo episodio di Heimat 3, è ancora la narrazione di Herman, il protagonista della saga, ormai affermato direttore d’orchestra, che ripensa così alla notte del 9 novembre 1989: «Sentii una strana vibrazione avvolgere la notte berlinese. Come se si stesse avvi-cinando un giubilo che ancora non si sentiva […] Quella notte, la storia del mondo tratteneva il re-spiro» . Quella notte, che coincide per Herman anche con l’incontro con Clarissa, la donna che più aveva amato e che aveva perso di vista per diciassette anni, è la notte delle attese, del sogno di un dimorare senza confini, a cui ci si prepara trattenendo il respiro.

Riferimenti bibliografici:
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2009;
H.K. Bhabha, The Barbed Wire Labyrinth. Thoughts on the Culture of Migration, «Philosophy and Social Criticism» 4 (2019), pp. 403-412;
J. Butler, L’alleanza dei corpi, tr. it. di F. Zappino, Nottetempo, Milano 2017;
I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 2001;
Id., Prolegomeni a ogni metafisica futura che si presenterà come scienza, tr. it. di P. Carabellese, R. Assunto, Laterza, Roma-Bari 1990;
E. Reitz, Heimat 3, Mikado Film 2004;
J.J. Rousseau, Discorsi, tr. it. di R. Mondolfo, Bur, Milano 2018;
V. Sorrentino, Aiutarli a casa nostra, Castelvecchi, Roma 2018;
S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, tr. it. di G. Ilarietti, M. Senaldi, Meltemi, Roma 2004.

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