Film Festival Offida 2013 – Intrecciando fragilità e speranza. Cinema e percorsi narrativi sul lavoro

Intrecciando fragilità e speranza. Cinema e percorsi narrativi sul lavoro

intervista a Sergio Di Giorgi

A venti giorni dall’inaugurazione della prima edizione del Film Festival Lavoroperlapersona (9-10-11 maggio ad Offida), abbiamo fatto alcune domande a Sergio Di Giorgi, formatore e critico cinematografico, componente della giuria del Festival, la cui esperienza aiuta a capire l’importanza del cinema come uno dei principali linguaggi artistici per favorire i processi formativi.

La Fondazione Lavoroperlapersona crede molto nell’utilizzo di vari linguaggi come possibilità per approfondire il legame tra persona e lavoro, dando vita a un percorso di ricerca, educazione e formazione, promozione e sensibilizzazione culturale. Lei si occupa ormai da diverso tempo di formazione e consulenza, oltre a essere un apprezzato critico cinematografico. Quanto crede siano importanti i linguaggi e le espressioni dell’arte nella formazione?

Credo anch’io fermamente – e dunque mi riconosco a pieno nella visione della Fondazione – che la formazione degli adulti debba educare e allenare sempre di più e meglio  le persone a riconoscere, praticare, valorizzare la pluralità e le diversità. Per sfuggire alle semplificazioni, agli stereotipi e ai pregiudizi che, nonostante la maggiore quantità di informazioni di cui disponiamo oggi, sono sempre in agguato abbiamo un enorme bisogno di uscire dai nostri consueti recinti mentali e confrontarci con altre culture, con altre storie e narrazioni, con altri linguaggi. La forza emozionale, simbolica, metaforica, dei linguaggi artistici è a tutti evidente. Di certo, questo è alla base del fenomeno cui assistiamo ormai da diversi anni, ovvero il  ricorso crescente a questi linguaggi nei processi formativi, in particolare nella cosiddetta formazione manageriale, che sempre più hanno visto riconoscere l’importanza delle emozioni e delle esperienze. D’altra parte, un peso lo hanno avuto anche le tendenze, pure presenti nelle organizzazioni, a inseguire “mode” formative o esigenze di “spettacolarizzazione”. Ma, a prescindere da questi aspetti, ritengo che i linguaggi dell’arte, se trasferiti, mi si passi il termine, in un altro contesto, come un’aula di formazione, richiedano ancora più attenzioni e sensibilità da parte di chi guida un gruppo in apprendimento, oltre a presupporre un livello di conoscenza specifica rispetto a quel dato linguaggio artistico che si vuole richiamare. Come ogni linguaggio, anche quelli artistici restano a mio avviso sempre un tramite, per creare nuove prospettive e nuove connessioni, quindi nuovo apprendimento. E’ l’apprendimento, insieme alle reali esigenze di chi apprende, che deve restare il focus centrale di ogni attività formativa.

Cinema e formazione, lei crede fortemente in questo connubio. Nel libro Formare con il cinema. Questioni di teoria e di metodo (Franco Angeli, Milano, 2012) da lei curato, insieme a Dario Forti,  si delinea un parallelismo tra gli aspetti generativi della settima arte e della formazione. Partendo da questa premessa, qual è secondo lei l’importanza del cinema nella formazione? E ancora, un cineasta può essere considerato un formatore?

Tra i vari linguaggi artistici utilizzati per favorire l’apprendimento, il cinema è forse quello che presenta le maggiori opportunità ma anche i maggiori rischi se utilizzato in maniera poco accorta, anche solo riduttiva o superficiale, nei processi formativi.  Questo, detto qui in estrema sintesi, ha a che fare proprio con la natura stessa del linguaggio del cinema, che è un linguaggio assai complesso e polisemico, che interroga simultaneamente la nostra sfera cognitiva e il nostro mondo simbolico  e affettivo, che stimola meccanismi psicologici particolari, che è deposito e veicolo della memoria e dell’immaginario,  sia sul piano individuale che collettivo, ecc. Al tempo stesso e per le stesse ragioni, le immagini del cinema creano spesso un “territorio comune” e favoriscono un pensiero critico e riflessivo, anche rispetto alle proprie convinzioni consolidate. Del resto, il cinema si fonda proprio sull’incrocio di punti di vista differenti: basti pensare a quell’elemento fondamentale della sua grammatica che è il “campo/controcampo”, il raccordo che in fase di montaggio mette in relazione, di norma sull’asse di ripresa del loro sguardo,  due interlocutori che si scambiano comunicazione verbali e/o non verbali. Io ritengo, e lo testimoniamo anche molti dei contributi del volume citato, che il cinema nella formazione, o per la formazione, serva molto di più a esplorare che a dimostrare. In questo senso, ci interessano poco i film “a tesi”, e credo che i cineasti, come i formatori, più che darci le risposte debbano aiutarci a trovare le domande giuste per noi. Ma, al di là del fatto che tanti grandi autori, anche del nostro cinema, da Olmi a Bellocchio, si sono distinti pure come formatori, aprendo delle importanti scuole di cinema, stiamo parlando chiaramente di mestieri ben diversi. Piuttosto,  si è iniziato a riflettere su come i formatori abbiano molto da imparare, in termini di approccio, attitudini, ma anche di competenze operative, da chi fa cinema documentario. Anche di questi temi abbiamo parlato con due tra i nostri documentaristi più avvertiti, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, in una intervista, curata da me e da Vittorio Canavese: “Imparare dai documentaristi: progettare in corso d’opera”, pubblicata sulla rivista dell’AIF-Associazione Italiana Formatori “FOR”, n. 91, aprile-giugno 2012.

Negli ultimi anni sta acquisendo un’importanza sempre maggiore una formazione basata sulla crossmedialità, intesa come la possibilità di fruire di un medesimo contenuto utilizzando più media contemporaneamente. La crossmedialità come l’interdisciplinarietà, la forza della diversità nell’unione, un tema caro alla Fondazione Lavoroperlapersona, approfondito nel primo Seminario Interdisciplinare sull’Accoglienza: ‘La diversità come dono e sfida educativa’ (20-22 settembre 2012). Far connettere tra di loro più arti e discipline, creando una contaminazione virtuosa. Quali reputa essere i punti di forza di un approccio interdisciplinare e crossmediale?

Sì, l’approccio interdisciplinare, nella formazione come nella ricerca, è l’unico in grado di superare le barriere culturali – nel nostro Paese penso a quella storica e assurda contrapposizione tra cultura umanistica e scientifica – e di trovare le connessioni tra i saperi, i processi, i fenomeni per generare, come dicevo prima, apprendimento. Ma occorre sempre uno sforzo di integrazione e di  focalizzazione rispetto ai nostri obiettivi. Il tema della crossmedialità si lega ovviamente all’avvento dell’era digitale e alle nuove potenzialità e opportunità offerte, anche nel settore educativo, dagli sviluppi delle tecnologie audiovisive e delle pratiche della rete, in particolare di quello che chiamiamo in modo spesso un po’ generico “web 2.0”. Nel web 2.0 l’audiovisivo è e sarà sicuramente protagonista e le tecnologie audiovisive sono e saranno sempre più indirizzate all’utente finale. Quello  che cambia, peraltro, sono gli scenari e le dinamiche di fondo.  Solo per ricordarne alcune, pensiamo che è uno scenario che vede la fine della storica distinzione di ruoli tra autori lettori spettatori, interpreti; dove i testi e le opere non sono più chiuse, ma sempre più aperte, dove  la digitalizzazione permette la continua manipolabilità e riutilizzazione dei testi, ma pure il loro veloce reperimento; è il mondo degli “User Generated Contents”, dove gli individui diventano fruitori attivi, legato a sua volta allo sviluppo, storicamente assai recente,  dei social media e dei social network. E si potrebbe continuare a lungo. Ma anche qui, ci sono opportunità e rischi. Il vero punto di forza è conoscere e saper gestire questi processi. Oggi, per i formatori, la sfida principale è infatti sempre più quella di orientare le persone a trovare i percorsi di apprendimento più adatti a loro, di essere “curatori” dell’apprendimento.

Lei afferma che ci sono due principali modalità di utilizzo del linguaggio cinematografico: uno si rispecchia nella visione riflessiva e l’altro nella creazione di filmati e storie originali. Durante il Film Festival Lavoroperlapersona verranno sperimentate entrambe le prospettive: da un lato attraverso la proiezione di film e la successiva discussione, dall’altro attraverso il Concorso Cortoh24. Oltre a ciò saranno allestite tre mostre fotografiche, due concerti e un coro gospel, conferenze e incontri con filosofi e formatori. Facendo anche riferimento alla sua esperienza, cosa pensa di questo Festival e cosa si aspetta?

E’ la constatazione delle due principali  aree di  applicazione del cinema, e più in generale delle immagini, nella formazione. Da una parte,  l’uso del cinema come archivio, attorno a cui discutere e rielaborare criticamente, specie se in gruppo. E’ la modalità più antica e per molti versi consolidata. Si possono usare opere integrali, o singole scene di film, o ricorrere ai “blob cinematografici” con finalità formative. In Italia, per merito soprattutto di  Dario D’Incerti che ne è l’inventore, questa pratica si è molto sviluppata tra i formatori e il “blob”  è divenuto a sua volta una forma espressiva e narrativa autonoma. Ma anche lì, vale sempre il discorso delle conoscenze e competenze che occorrono “per fare un buon blob”… Sull’altro versante, abbiamo l’utilizzo, in particolare da parte delle aziende, di materiali filmici e audiovisivi per creare narrazioni originali. E’ una prospettiva che guarda maggiormente al presente e al futuro anche perche’ incrocia, ad esempio, le pratiche della rete e le esperienze di “digital storytelling”. Noi pensiamo che ci sia però un rapporto di complementarietà e di continuità evolutiva tra queste due aree, e quindi credo che il Film Festival Lavoroperlapersona potrà fornire un ulteriore esempio di questa osmosi tra le due dimensioni. Più in generale, l’offerta multidisciplinare e l’incontro sia con esperti di diversi campi che con diverse forme artistiche ed espressive, sarà un’esperienza in linea con le tendenze e i bisogni formativi sopra indicati come attuali e necessari.

Il film vincitore, Il mio domani di Marina Spada, racconta la solitudine, la contraddizione, la precarietà dell’esistenza, il legame con il passato, la rottura, la riconciliazione, il cambiamento. Qual è il valore aggiunto del lungometraggio di Marina Spada, tanto da fargli meritare la vittoria al Film Festival?

Su questa domanda, preferisco rimandare alle parole della stessa regista, che spiegano meglio di altre, anche rispetto ai temi qui trattati, il valore dell’opera. Sono riprese da una approfondita intervista sulla sua filmografia curata da Giuseppe Varchetta e Dario D’Incerti e pubblicata sul numero 18, anno 2012, della rivista “Educazione sentimentale” (Franco Angeli).

(Marina Spada) “Credo  che il tema centrale di quella storia sia il rapporto tra potere e sapere. Il sapere, la conoscenza, danno potere e occorre vigilare attentamente sul loro uso. E’ molto facile ed altamente rischioso manipolare con la conoscenza. Ho  voluto fare un film sul tempo presente, quello delle aziende in crisi, piene di parole vuote della loro portata affettiva, svuotate della loro valenza simbolica. Ho girato per diverse aziende, cercando di cogliere quello che si intravedeva dietro  la nebbia; ho visto “quei luoghi” della caduta simbolica e dello svuotamento affettivo e ne ho proposto una sintesi drammatica”.

 

Sergio Di Giorgi, membro della giuria del Film Festival Lavoroperlapersona  si occupa da oltre venti anni di formazione degli adulti, con particolare riferimento alle aree della comunicazione organizzativa e del management interculturale. Ha inoltre sviluppato specifiche competenze sulle applicazioni formative del linguaggio cinematografico. Ha curato, con Dario Forti, il volume Formare con il cinema. Questioni di teoria e di metodo (Franco Angeli, Milano, 2011, collana AIF-Associazione Italiana Formatori). Come critico cinematografico free-lance collabora, tra l’altro, con “Cineforum” e “Cinecriticaweb”.

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