Blog EllePì – Giustizia Generazionale

Tempo di lettura 6 minuti

di Alice Felci

La maggior parte delle statistiche sui giovani sia in Italia che in Europa ha progressivamente allargato il range sino ad includere, a partire dal 2000, gli over trenta. La gioventù coincide con la fase di sviluppo delle potenzialità sia biologiche che economiche. Il passaggio da figli a padri, l’autonomia abitativa e l’indipendenza economica sono segnali chiave dell’entrata nel mondo degli adulti. I toni apocalittici di chi descrive l’Italia come un Paese di vecchi e per vecchi, sono sostenuti dalla gerontocrazia della nostra classe politica, da una logica meritocratica che fatica a definirsi, da un sistema universitario che di formativo ha solo l’unità di misura e da una mobilità sociale in frenata ma, non possono giustificare una generazione che, specchiandosi nelle precedenti preferisce al progresso lo status quo. Complice la sfiducia nelle istituzioni e nei partiti politici i giovani si ripiegano su se stessi e preferiscono una coabitazione conveniente ad uno scontro generazionale. Questa un’analisi superficiale.

Chiaro è che le scelte affettive, procreative e abitative sono influenzate da fattori culturali ma, soprattutto, dal rapporto che la nostra generazione ha con l’economia. L’analisi della struttura economica è fondamentale per inquadrare meglio le radici e le possibili soluzioni della patologia, se di patologia possiamo parlare.

Cos’hanno in comune un diciottenne ed un trentenne in Italia?

Diciottenni e trentenni sono spesso accomunati sia della contrattualizzazione (part‐time, progetti, somministrazione) sia dai consumi (viaggi, tecnologia, droghe e alcolici, divertimento notturno, abbigliamento, spese per la macchina), sia dall’assenza di autosufficienza economica e spesso abitativa. Appartengono ad una generazione che ha esteso la condizione giovanile a livello biologico e sociale. Nel primo caso analizzando i criteri che definiscono il passaggio all’età adolescenziale, lo sviluppo fisico e le prime esperienze sessuali notiamo che c’è un abbassamento dell’età a 13 per le femmine e 14 per i maschi mentre l’ingresso biologico nel mondo adulto, la procreazione, è sempre più procrastinato o evitato. A livello sociale ed economico l’entrata nel mondo degli adulti dovrebbe essere sancita da un’autonomia economica dal nucleo di origine e tradizionalmente anche nella possibilità di trasferimenti di risorse a favore dei genitori anziani.

Quello che avviene in Italia è che molti giovani, che non saranno in grado di mantenere l’impegno del patto sociale privato, rinunceranno o hanno già rinunciato ad un redistribuzione pubblica più equa1) .

La fetta di welfare riservato a pensioni e sanità è ingiustificatamente sproporzionata rispetto alla più efficace spesa in istruzione e politiche attive per famiglia e lavoro.

I sindacati non sono in grado di proteggere i giovani che entrano nel mercato del lavoro, spesso con contratti a somministrazione, part‐time o a progetto. Perché nel 2006 Cofferati ha portato in piazza un mln di persone, tra cui molti giovani, per difendere i privilegi acquisiti dalla generazione dei nostri genitori che non saranno applicati alla nostra? Perché i giovani piuttosto che lottare per i propri diritti difendono quelli dei loro genitori? Una possibile risposta è che il 23% dei giovani con più di 30 anni non è inserito nel Mondo del lavoro mentre il 36% degli ultra trentenni vive ancora in famiglia. Uno sguardo più attento ai dati mostra che la fonte primaria di sostentamento dei giovani fino ai 35 anni proviene dalla famiglia di origine2) . Questo è proporzionalmente maggiore ove la famiglia d’origine sia colta e di ceto medio, medio/alto: stare in casa con i genitori significa maggior guadagno, minori responsabilità e maggiori consumi, in una logica della paghetta che drammaticamente accomuna diciottenni a trentenni.

La maggior richiesta di istruzione ha portato negli ultimi anni una scolarizzazione maggiore e percorsi strutturati di Università e post‐laurea. Complice il processo di Bologna e la riforma Universitaria si è cercato di mettere lo studente al centro, bilanciando l’istruzione, il sapere, con la formazione, il saper fare. Questi buoni propositi si sono tradotti nell’immaginario studentesco in un offerta di corsi labirintica e frammentata e soprattutto nell’allungamento ulteriore dei cicli di studio.

I dati sembrano confermare da un lato che la laurea seppur garantisce competenze utili nel proprio lavoro non costituisce un fattore di protezione rispetto all’ingresso nella disoccupazione o nel lavoro atipico. Nel processo di trasmissione delle competenze i giovani italiani sembrano soddisfatti delle conoscenze di base e nelle abilità relazionali e comunicative che la scuola gli ha trasmesso ma insoddisfatti rispetto alle competenze informatiche, linguistiche ed organizzative. La bilancia sembra quindi pendere a favore della funzione di istruzione ed educazione piuttosto che su quella di formazione. Questo modello può essere supportato solo in un contesto di forte equità sociale dove tutti i giovani abbiano la possibilità di colmare le lacune informatiche e linguistiche con corsi estivi all’estero e accesso alla tecnologia, cosa che in Italia ancora non accade.

La flessibilizzazione dei rapporti di lavoro con dispositivi che diminuiscono il costo del lavoro e rendono più facile all’impresa ridurre gli organici in caso di esubero, trovano scarso seguito tra i giovani, senza distinzioni di genere, età, macro‐area di residenza e livello culturale della famiglia d’origine. Ovviamente l’”indice di flessibilità”aumenta per i lavoratori autonomi e per i giovani più specializzati, tuttavia 1 giovane su 5 (considerando il drammatico tasso di disoccupazione giovanile superiore al 35%!) si trova in una situazione lavorativa insicura (lavoratori parasubordinati, stagisti e tirocinanti). La problematicità che emerge nelle analisi della dimensione lavorativa giovanile instabile non è tanto di tipo quantitativo (la maggioranza dei giovani lavoratori è infatti assunto con contratti a tempo indeterminato o lavoratore autonomo)ma nel perdurare nelle varie categorie di età (dai 21 ai 24, dai 25 ai 29 e dai 30 ai 34) della stessa percentuale di lavoratori “atipici”.

Per quanto riguarda il lavoro autonomo non è incoraggiante l’analisi dei dati del rapporto Cerved3) su giovani e impresa. I dati annuali relativi all’età dei soci/titolari delle ditte individuali e delle società di persone nate nel periodo 2000‐2007 (tabella 1) confermano,infatti, la significativa riduzione nella presenza di giovani tra i nuovi imprenditori dell’industria. Per quanto riguarda le ditte individuali, la percentuale degli under 35 ha toccato un picco nel 2002 (il 54% dei nuovi imprenditori) e successivamente è costantemente calata, fino a toccare il minimo nel 2007, anno in cui solo il 41,2% dei nuovi titolari di ditte individuali ha meno di 35 anni.

Tabella – Distribuzione per classi di età dei soci/titolari delle ditte individuali e delle società di persone nate nell’industria

(*) stime. Fonte: Cerved BI

Riassumendo: un’imprenditorialità bloccata, genitori ultra cinquantenni ancora attivi, senso diffuso di precarietà, frenano i progetti a lungo termine e il sano scontro generazionale. Questo quadro non deve però essere frainteso, lo scarso peso che i giovani hanno nell’economia italiana non corrisponde ad una generazione con poche capacità. I giovani, di talento, ne hanno da svendere (spesso all’estero) e il welfare italiano non è stato finora in grado di sostenere, né di parlare, di merito e ambizione come ha fatto con la fragilità e il disagio.

Per uno sviluppo generazionale sostenibile

Come possiamo reagire e dove investire per evitare un peggioramento drastico dello scenario sopra dipinto?

L’andamento demografico non sembra incoraggiare l’ampliamento della fetta di economia riservata ai giovani ma un criterio di distribuzione della spesa pubblica troppo favorevole ad una generazione crea sempre squilibri.

A livello istituzionale sono auspicabili l’inserimento in costituzione di articoli che promuovano la giustizia generazionale, soprattutto a livello di politica fiscale e debito pubblico, oltre alla creazione di una commissione parlamentare ad hoc che valuti i costi-benefici delle politiche pubbliche nel lungo periodo.

Sulla questione politica il problema non sono i partiti, strumenti di rappresentanza più raffinata e meno lobbistica rispetto a movimenti e social network, ma l’assenza di istanze concrete di giustizia sociale e giustizia generazionale, fondamentali per alimentare un sogno di una società il cui benessere non si misuri in PIL ma in capitale umano, sociale e rispetto del futuro.

La  politica dovrebbe proporre un criterio di giustizia generazionale equo e condiviso basato sull’idea che non esistono giovani e vecchi ma giovani che diventeranno vecchi e vecchi che sono stati giovani.

L’idea di un welfare che consideri dinamicamente ogni generazione nel suo dare e avere significa ribaltare il paradigma, tipico del nostro sistema di welfare conservatore, per cui i padri debbano contribuire  privatamente all’autonomia educativa e abitativa dei figli e i figli paghino pensioni e sanità quando (se fortunati) entrano nel mercato del lavoro.

Il sistema pensionistico contributivo, introdotto recentemente nel nostro Paese, se da un lato risponde a istanze di giustizia generazionale, risulta carente nella redistribuzione di ricchezze tra ricchi e poveri all’interno della stessa generazione.

In questo sistema i pensionati più ricchi dovrebbero essere i primi a compensare le pensioni più povere. La giustizia generazionale e la giustizia sociale devono e possono trovare un compromesso nella misura in cui la prima si applichi tra generazioni contigue e la seconda si applichi all’interno della stessa generazione.



1) Cito ad esempio la riforma Dini, elogiata negli anni ’90 per aver razionalizzato il sistema previdenziale italiano,  che , a mio avviso, ha diviso le generazioni italiane in buone e cattive – premiandone alcune e punendole altre – perché ha inquadrato i lavoratori e futuri pensionati in tre distinte categorie, trattate in modo radicalmente diverso: senza alcuna logica, almeno sul piano tecnico. Le “vittime sacrificali” della riforma Dini sono stati i giovani italiani, entrati nel mercato del lavoro a partire dal 1996. Sono, inspiegabilmente, gli unici ai quali si applica il (penalizzante) sistema contributivo e che quindi hanno un’unica certezza nel proprio futuro: quella di non aver diritto neanche alla certezza più granitica delle generazioni precedenti, una buona pensione. Sarebbe stato molto più equo – e più incisivo sotto il profilo della razionalizzazione dei conti pubblici – applicare a tutti i lavoratori il metodo contributivo, fatti salvi naturalmente i diritti acquisiti fino all’entrata in vigore della riforma.

2) Livi Bacci, Avanti Giovani alla riscossa, il Mulino, 2007.

3) Rapporto Cerved, Business and Innovation, 2008.

Riferimenti:

Felci, Alice (2012) Welfare and Generational Justice. Tesi di Dottorato, LUISS Guido Carli, Department of Political Science > PhD Program in Political Theory (english language), pp. 120.

 

Profilo dell’autore

Alice Felci ha conseguito un dottorato in teoria politica con una tesi sul Welfare e la Giustizia Generazionale, si occupa di finanziamenti europei all’Università LUISS Guido Carli. Tra i suoi interessi il rapporto tra giovani e partiti, la mobilità sociale, la politica universitaria e di valutazione della ricerca.

 

 


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