Blog EllePì – Dialogo, parola, intercultura. L’inclusione sociale passa (anche) da casa
di Gaia Moretti
Lingua, cultura, casa, costumi, religione; il dialogo interculturale è un cocktail di tanti elementi, non tutti conosciuti e non tutti evidenti (Malizia, 2007). La necessità di parlare, di dialogare (rispettando le regole) con le diverse culture, la necessità di integrare le culture “ospitate” facendo loro comprendere i nostri meccanismi conoscitivi e regolatori, sono tutte caratteristiche dei discorsi ripetuti da diverse Amministrazioni cittadine, in diverse città, con gli stessi fondamenti. Queste “chiacchierate”, che esaltano l’intercultura senza mai definirla, finiscono per non sortire alcun effetto, perchè mancano della fondazione necessaria alla comprensione stessa del concetto. Per dirla con un termine caro alla filosofia critica, una comprensione trascendentale (Husserl, 1995) del concetto di intercultura non esiste ancora. È dunque assolutamente difficile riuscire a praticarla senza averne prima definito i caratteri: il linguaggio contemporaneo non ha, o almeno non ha ancora, la capacità di descrivere compiutamente cosa l’intercultura (normativamente) debba essere nel day-by-day del cittadino, soprattutto del cittadino delle grandi città.
Fuori dalla deriva filosofica, è semplicemente difficile praticare l’intercultura in città piene di barriere. Barriere di molti e diversi tipi. L’inclusione (o l’esclusione sociale) passa anche dalla gestione degli spazi (sociali) urbani (Lefebvre 1976). Una rapida occhiata alle principali città europee ci dimostra come le politiche abitative adottate da ciascuna città siano assolutamente eterogenee: si passa dal distacco tutto parigino tra le banlieue (non sempre e non necessariamente baraccopoli) ai campi nomadi nelle periferie più lontane delle grandi città italiane, alle periferie londinesi, alle campagne rumene o slovacche. Molti modi di vivere una condizione abitativa che ha certamente molto di interculturale ma poco di inclusivo. Cosa succede nelle banlieue parigine, nei campi nomadi romani, nelle campagne rumene, nei quartieri indiani di Londra?
Storicamente, questi spazi abitativi (Moore, 2000) sono stati definiti “ghetti”, dalla sociologia come dalla letteratura architettonica. Dopo quasi un secolo dalla fondazione del primo ghetto per gli Ebrei in Europa ci si chiede allora quali siano, oggi, le differenze tra una casa “normale” e un’abitazione in un ghetto.
Se la casa ha a che fare con il concetto di sicurezza (Rainwater, 1966), il rafforzamento dei legami familiari grazie alla vicinanza (Gasparini, 2000), l’igiene e la pulizia, le feste e il tempo libero, la partecipazione alla vita collettiva, allora la differenza non esiste. Se l’abitare soddisfa invece dei bisogni primari e secondari (Amendola, 1984), l’abitazione del ghetto assume caratteristiche diverse da quelle di una casa: più piccola, più rumorosa, più sporca a causa dell’alto numero di persone che la abita, senza la tanto oggi osannata privacy, e con molte altre caratteristiche che sono, spazialmente, il contrario di quelle di una normale abitazione. Come molti piccoli paesi italiani, i ghetti sviluppano poi al proprio interno una piccola comunità economica: c’è il bar, la donna che vende i cibi fatti da lei, nel caso delle comunità Rom fino a qualche anno fa c’era persino il dentista. Uno spazio abitativo, insomma, che chiude al suo interno differenti comunità e sub-culture, e che lascia poco spazio per i collegamenti con l’esterno.
Uno spazio, quello dei nuovi ghetti urbani, caratterizzato dalla segregazione, ovvero “una forma più o meno istituzionalizzata di distanza sociale che si traduce in una separazione dello spazio” (Agostini, Giuntarelli, Veraldi, 2007).
In questo spazio così particolareggiato vivono e si sviluppano quelle comunità con le quali dovrebbe instaurarsi il dialogo interculturale. Ma per i membri di quelle comunità che vivono fuori dai ghetti e dentro le case “normali”, la situazione non è poi tanto diversa. Perchè l’appartenenza alla comunità passa per la famiglia e la lingua, almeno nella maggior parte dei casi, e la realizzazione del dialogo interculturale non si limita certo ad un “dialogo abitativo”. Ogni comunità che integra lo spazio cittadino ha una sua lingua di riferimento, una storia, degli usi e tradizioni che rispetta pubblicamente o meno; manifestazioni culturali che non dipendono solo dall’abitare, e che sono tuttavia molto più evidenti negli spazi abitativi.
Allora, per dove passa l’inclusione sociale?
I processi di inclusione sociale sviluppati nei confronti delle comunità straniere (soprattutto nelle grandi città italiane ed europee) devono tener conto di alcune necessità socio-culturali fondamentali e caratteristiche (Sigona, 2002); il protagonismo delle comunità, che per uscire dal proprio “guscio” sociale e culturale devono appropriarsi dei processi in atto e realizzarli in gran parte autonomamente, l’apertura della “società ospitante” ad una cultura da sempre percepita come “altra”, sia attraverso la messa in atto di politiche nazionali di integrazione reale, sia attraverso la promozione della cultura in quanto tale (e dunque anche della lingua).
Processi oggi tristemente famosi, di esclusione più che di inclusione sociale, portano le comunità a chiudersi sempre di più in se stesse ed a fare della lingua e della cultura uno strumento di difesa nei confronti della società “ospitante” (Moretti, 2011). È così che i Rom adulti non hanno voglia di imparare l’italiano, perchè nessuno capisce la loro lingua e dunque possono usarla per comunicare tra loro anche di fronte al “nemico”; è così che le comunità cinesi importano prodotti a prezzi bassissimi (e dunque potenzialmente mandano in crisi i mercati tradizionali), è così che i commercianti indiani si “appropriano” del commercio di frutta e verdura a basso costo (e proveniente da zone altamente inquinate).
L’inclusione, ad occhio, è l’opposto dell’esclusione, che genera criminalità; l’inclusione realizzata, perciò, evita il formarsi di sacche culturali “sfuggenti”, non conosciute e che non hanno neanche voglia di farsi conoscere. L’inclusione passa, allora, da casa, dai diversi mattoni che la compongono: dal riconoscimento della minoranza linguistica (Cermel, 2009), dalla libertà di culto, dal riconoscimento che il diverso esiste e può vivere alla porta accanto. Casa è dove si può appendere il cappello; dal basco al colbacco, passando per il velo.
Riferimenti Bibliografici
Agustoni, A., Giuntarelli, P., Veraldi, R. (2007) Sociologia dello spazio, dell’ambiente e del territorio, Milano, Franco Angeli.
Cammarota, A. (2009) I Rom e l’abitare interculturale: dai torrenti ai condomini, Milano, Franco Angeli.
Cermel, M. (2009) Le minoranze etnico-linguistiche in Europa. Tra Stato nazionale e cittadinanza democratica, Padova, CEDAM.
Gasparini A. (2000) La sociologia degli spazi. Luoghi, città, società, Roma, Carocci.
Husserl, E., (1995), Esperienza e Giudizio, Milano, Bompiani.
Lefebvre H. (1976), La produzione dello spazio, Moizzi editore, Milano.
Moore, J. (2000), Placing home in context, in Journal of Environmental Psychology, vol. 20, 3, pp. 207-217.
Moretti, G. (2011), Nomadismo e ghetti urbani, in Temperanter n. 3/4, vol. 2, Trieste, CIRSI.
Rainwater, L. (1966) Fear and House-as-haven in the Lower Class, in Journal of American Institute of Planners, vol. 32, I, pp. 31-35.
Ravazzini, M., Cossi, M., a cura di (2008) I Rom in una metropoli e noi, Milano, Jaca Book.
Profilo dell’autrice
Gaia Moretti è docente di Comunicazione, Nuove Tecnologie e Webmarketing presso l’università ISCEM di Lisbona, dove attualmente insegna nel corso di laurea triennale in Marketing Management e nelle laureee specialistiche in Comunicazione d’impresa e Marketing Strategico. È responsabile Comuncazione, Formazione e Processi di Internazionalizzazione in Ianus Srl. È dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione e Organizzazioni Complesse per la LUMSA, ed è laureata in Filosofia alla Sapienza di Roma; è membro del CRESEC – Centro di Ricerca LUMSA su Responsabilità Sociale, Eventi e Comunicazione, e di numerosi gruppi di ricerca in Brasile e in Portogallo.