Buona sera e grazie per l’invito che ci offre l’occasione per testimoniare anche la proficua collaborazione della Fondazione Lavoroperlapersona ETS con la scuola Jack London. Il centenario di Paolo Volponi ci dà l’opportunità di condividere tre riflessioni che riguardano in qualche modo le pratiche realizzate dalla Olivetti per tradurre nel concreto, come ha scritto Federico Butera, “l’utopia di un capitalismo riformato dal volto umano”. Un incontro, quello di stasera, appropriato anche per far conoscere il pensiero e la visione della Fondazione Lavoroperlapersona ETS che ha trovato e continua a trovare motivi di ispirazione nell’esperienza olivettiana perché capace di indicare ancora molto all’economia e al lavoro, al management, all’educazione.
Quanto sono ancora vive e attuali le pratiche messe in atto dai Servizi Sociali e poi dalla Direzione relazioni aziendali guidate da Volponi in Olivetti? Perché molti continuano ad attingere da quella esperienza per trovare il coraggio di seguire una certa strada e non un’altra, per guardare ancora con fiducia all’uomo considerandolo capace di trasformare realmente un’economia capitalistica dai mille volti? La risposta è semplice: perché abbiamo bisogno di lasciarci ispirare da quelle idee e pratiche, fondate su una visione ampia, su un’idea di impresa profondamente innovativa, su una empatia straordinaria con i lavoratori guardati prima sempre come persone, il cui benessere è inserito, come scrive Alessandro Zattoni, nei business model dell’impresa. Tutte cose che oggi sembrano mancare nel lavoro. Per questo l’esperienza olivettiana, della quale il Paolo Volponi dirigente d’azienda è stato certamente un protagonista, ci offre lenti appropriate per discutere criticamente l’economia, le pratiche manageriali e in special modo quelle di organizzazione del lavoro e di gestione delle risorse umane in un’epoca, come quella che viviamo, di molteplici transizioni. Le tre riflessioni che propongo riguardano: - il senso del lavoro- l’approccio alla retribuzione e le disuguaglianze retributive- la formazione delle persone.
Il senso del lavoroFederico Rampini, in un editoriale del 2013[1], riporta questo pensiero di Adriano Olivetti: «il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo». È un pensiero di una attualità disarmante, perché oggi viviamo un tempo nel quale le ricerche registrano forse i livelli più bassi di quello stato d’animo dei lavoratori che chiamiamo engagement. Non c’è report che non evidenzi questa drammatica situazione. I lavoratori urlano la loro insoddisfazione che, attenti bene, non nasce solo dal livello insoddisfacente delle retribuzioni, ma trova origine soprattutto dai contenuti e dalle condizioni in generale del lavoro che ne impoveriscono il senso. Di cosa si lamentano, insomma? Semplificando molto denunciano poco coinvolgimento, carenza di riconoscimento e molto stress lavorativo. Due anni fa una ricerca condotta dal MIT di Boston[2] individuava come ragione del malessere un fenomeno che hanno chiamato «cultura tossica» dell’azienda. Tossicità intesa in chiave relazionale, un fattore che inquina i rapporti con i propri colleghi e con i superiori e che devasta il senso di benessere. Non ha bisogno di molte spiegazioni immaginare che lavorare in un ambiente considerato tossico e ostile sia insostenibile per le persone.
Siamo davvero lontani, per riprendere il pensiero di Adriano Olivetti che ho ricordato prima, dal lavoro come fonte di gioia, la realtà ci dice che il lavoro piuttosto è fonte di tormento; conferma la valutazione che negli anni abbiamo deturpato il suo senso, trasformandolo in un brutto modo di impiegare il proprio tempo. Il contrario del lavoro come progettualità, mezzo di realizzazione, strumento per generare benessere personale e collettivo: il lavoro fonte di dignità della persona[3].
Per questo, con la Fondazione Lavoroperlapersona ETS stiamo realizzando da alcuni anni un progetto educativo e di ricerca articolato che abbiamo chiamato Senso del lavoro, lavoro di senso, perché avvertiamo tutta la drammaticità della situazione. Il lavoro soffre di una crisi di senso e di significati, così anziché collante e forza trainante dello sviluppo del Paese si trasforma in un’esperienza da cui fuggire. La grande fuga dal lavoro, livelli di motivazione dei lavoratori ai minimi, la difficoltà che le aziende incontrano nel trovare persone disponibili ad essere impiegate, la corsa al pensionamento sono tutti fenomeni che segnalano la stessa cosa: il lavoro non è più considerato un bene o una «grazia di Dio», come ci dicevano i nostri nonni e genitori, ma qualcosa da cui fuggire per cercare altro. Attorno al lavoro, insomma, abbiamo fatto crescere tanta erbaccia che gli ha tolto ossigeno e senso, così il giardino del lavoro si è ingiallito.
L’approccio alla remunerazione e le disuguaglianze retributiveLa questione è molto articolata, ci sono diverse prospettive dalle quali analizzarla; ne prendo soltanto un paio senza alcun approfondimento. Credo sia sotto gli occhi di tutti la tendenza in atto nelle imprese ad ampliare le forme e i destinatari dei sistemi di incentivazione per obiettivi. C’è un progressivo allargamento di pratiche incentivanti che considero devastante in quanto teoria e ricerca empirica mostrano che più si ricorre all’incentivazione più si depotenzia la motivazione intrinseca. Per dirla in maniera molto semplice, quello che voglio dire è che a forza di incentivare finirà che il valore di quello che si fa per amore, per dovere, per passione cambierà di segno, s’impoverirà di senso e lo si farà solo dietro una ricompensa specifica ed aggiuntiva, spiazzando così l’effetto di altre motivazioni. Quello che mi preme sottolineare è che dietro questa pratica diffusa c’è un’idea sbagliata dell’uomo, un’idea mercificante che afferma (implicitamente) che la motivazione delle persone ha una dimensione (quella economica) e che con i soldi si vorrebbe poter comprare tutto, performance, engagement dei lavoratori, felicità. Sappiamo però che non è così!
Da questa prospettiva, d’altro canto, sappiamo bene anche un’altra cosa, ossia che i livelli retributivi sono bassi, una circostanza che fa soffrire molte persone e rendono il lavoro poco dignitoso. Il più recente rapporto OCSE[4] lo ha mostrato con la forza dei dati; una situazione quella rappresentata che alimenta inoltre crescenti disuguaglianze. I profitti, infatti, guadagnano posizioni anno dopo anno mentre i salari restano al palo. Per dirla con un linguaggio classico la ricchezza prodotta sembra aver preso la strada del Capitale, che è stato ben remunerato, mentre si sono lasciate al Lavoro solo le briciole. C’è anche altro però, perché negli ultimi decenni, accanto a questa tradizionale disuguaglianza (che aumenta) stiamo assistendo alla crescita prepotente anche di un’altra disuguaglianza, la disuguaglianza interna al mondo del lavoro.
Cosa vuol dire? Significa che anche nel lavoro «i più ricchi dei ricchi» guadagnano sempre di più. Il fenomeno è noto ed è stato oggetto anche di approfonditi lavori e inchieste giornalistiche. Si tratta di questo: i differenziali delle retribuzioni percepite dagli executive e quelle percepite dai lavoratori (l’ampiezza del ventaglio dei redditi) sono cresciuti nel tempo, segnalando distanze in Europa che, anche se significativamente diverse da quelle che si registrano negli Stati Uniti, sono comunque difficilmente giustificabili. Quanta distanza con il pensiero e con le pratiche di Adriano Olivetti! Siamo davvero lontani perché Adriano Olivetti riteneva che «nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso»[5].
Sono pratiche che accentuano le percezioni di distanza dell’impresa che sentono i lavoratori. Sono numerosi i rischi che si corrono, quello più grave lo ha segnalato Papa Francesco quando, in occasione di un incontro con gli imprenditori di Confindustria, ha affermato: «se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale, e presto si ammala la società». In questa occasione, Francesco ha ricordato proprio il pensiero e la pratica di Adriano Olivetti che «aveva stabilito un limite alla distanza tra gli stipendi più alti e quelli più bassi, perché sapeva che quando i salari e gli stipendi sono troppo diversi si perde nella comunità aziendale il senso di appartenenza a un destino comune, non si crea empatia e solidarietà tra tutti; e così, di fronte a una crisi, la comunità di lavoro non risponde come potrebbe rispondere, con gravi conseguenze per tutti»[6].
La formazione delle personeVengo alla terza riflessione. Riguarda il pensiero che Adriano Olivetti aveva riguardo la cultura d’impresa, soprattutto il valore e le finalità della formazione. L’imprenditore di Ivrea aveva una visione profondamente pedagogica del lavoro. Anche qui c’è particolare assonanza con la visione del lavoro e con le attività della Fondazione Lavoroperlapersona ETS. Voglio condividere un passaggio del discorso di Natale ai lavoratori di Ivrea del 24 dicembre 1955, in questa occasione ebbe modo di dire: «anche gli istruttori e i maestri e i giovani del nostro Centro Formazione Meccanici sanno che importa costruire degli uomini, forgiare dei caratteri senza i quali è vana e istruzione e cultura, perché il volto degli uomini onesti è così importante come il nodo divino che annoda tutte le cose del mondo». Anche questo è un pensiero di una straordinaria attualità.
Cresce la consapevolezza, infatti, che sono prioritarie per il futuro non solo le tradizionali competenze cognitive (capacità di ragionare, pianificare e organizzare, collegare, valutare ecc.) ma un gruppo di competenze che – pur identificate con etichette differenti – vogliono tutte indicare l’esigenza di andare oltre la dimensione del saper fare, volendo valorizzare piuttosto il “saper essere”: sono anche chiamate «character skill»[7]. Sono competenze che hanno a che fare con il “carattere” del lavoratore, con la sua personalità; sono molto importanti perché sembra possano assicurare un’employability maggiore ai lavoratori. Se nel futuro ci sarà sempre più bisogno di queste particolari competenze, allora, occorre che i sistemi scolastici accelerino l’adeguamento dei programmi e della didattica in modo che la scuola diventi il luogo (non il solo) nel quale formare “persone”. Ecco la straordinaria visione di Adriano Olivetti che realizzava biblioteche in azienda, organizzava seminari sui temi più svariati perché voleva che la fabbrica fosse a misura d’uomo, che la fabbrica fosse luogo ed esperienza per elevare culturalmente e anche spiritualmente i lavoratori.
Chiudo con un’ultima riflessione. L’esperienza Olivetti ricorda alla politica, al sistema economico e ai suoi protagonisti che le imprese devono porre attenzione alla vita delle persone piuttosto che concentrarsi solo sulla performance, devono impegnarsi perché si recuperi lo statuto di persona del lavoratore. Può essere d’interesse, al riguardo, la provocazione che Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista, affida al titolo di un suo lavoro: «Funzionare o esistere?». Di cosa si devono preoccupare le imprese? Di cosa si devono preoccupare i manager? La fabbrica per l’uomo, che sognava Olivetti, il lavoroperlapersona che è il nostro sogno, devono essere realmente umani. Per questo quando raccontiamo qual è lo scopo del nostro impegno ci piace dire che vogliamo aiutare a “coltivare l’umano nell’economia e nel lavoro”.
[1] F. Rampini, Olivetti inedito, la Repubblica, 27 aprile 2013, p. 45.[2] D. Sull, C. Sull, B. Zweig, «La cultura tossica sta guidando la grande rassegnazione», MIT Sloan Management Review, 11 gennaio 2022, https://sloanreview.mit.edu/article/toxic-culture-is-driving-the-great-resignation/[3] Per una lettura sullo stato del lavoro e sulla necessità di rigenerarne la dignità si rinvia a G. Gabrielli, Rigenerare la dignità del lavoro, Collana Lavoroperlapersona, FrancoAngeli, Milano 2023, disponibile in open access: https://series.francoangeli.it/index.php/oa/catalog/view/1021/882/5686[4] https://www.aidp.it/hronline/2024/7/14/le-retribuzioni-reali-pietra-dinciampo-della-sostenibilita-sociale.php[5] Al riguardo può essere prezioso, per una documentata testimonianza di quanto stiamo discutendo, il lavoro di Domenico Affinito e Milena Gabanelli che fornisce un’aggiornata ricostruzione dei differenziali retributivi e della loro evoluzione (cfr. Affinito D., Gabanelli M., https://www-corriere- it.cdn.ampproject.org/c/s/www.corriere.it/dataroom- milena-gabanelli/stipendi-top-manager-649-volte-quello-un- operaio/8b7ecab8-0065-11ed-8d2e-fdedbee87a78- va_amp.html.)[6] https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2022/september/documents/20220912-confindustria.html[7] Chiosso, G., Poggi, A.M., Vittadini, G. (a cura di), Viaggio nelle character skills Persone, relazioni, valori, il Mulino, Bologna 2021.
Gabriele Gabrielli è ideatore, fondatore e presidente della Fondazione Lavoroperlapersona ETS. Insegna Organizzazione e gestione delle risorse umane all'Università LUISS Guido Carli e Remunerazione e gestione delle risorse umane all’Università Europea di Roma, dove è anche co-direttore del Master di 1^ livello in Sustainable HRM. E' consigliere delegato di People Management Lab S.r.l Società Benefit e BCorp. E' stato direttore Risorse Umane di Ferrovie dello Stato, Wind, Enel e Coin. In Telecom Italia è stato direttore Personale e Organizzazione della divisione Servizi Internazionali e responsabile dello Sviluppo Manageriale.