Blog EllePì – Pensare l'”In-Fra”

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Insolite riflessioni filosofiche sulle infrastrutture

di Carla Danani

In quale senso le infrastruture sono un oggetto filosofico?

Nel senso, credo, secondo il quale la filosofia offre categorie, scenari concettuali e posture interrogative per comprendere ciò che è, per comprendere l’esistenza, e le condizioni di produzione e riproduzione  dell’esistenza. Laddove comprendere è un movimento duplice: coglie ciò che si dà e, mentre lo coglie, lo riprende e dà forma attraverso il pensiero. In questo senso è prospettico: accoglie e mette in un movimento. La postura interrogativa può essere in primo luogo quella di una chiarificazione delle questioni in campo: provare a chiarire, mentre forse le cose sembrano ovvie, di che cosa stiamo davvero parlando, quando parliamo di una certa cosa, e come ne stiamo parlando, al fine di disambiguare per quanto possibile il discorso. Può essere però anche una postura più esigente: l’interrogazione di una questione intorno al senso, che implica cogliere ciò di cui si parla nell’orizzonte complessivo in cui comprendiamo l’esistenza e la realtà, e ci si prefigura quale vita si vorrebbe vivere.

Perciò qualsiasi può essere l’oggetto filosofico, e si dice che la filosofia non è caratterizzata da un oggetto specifico: è questo che mi sembra dica l’affermazione aristotelica per cui oggetto della filosofia è “l’essere in quanto essere”; la filosofia è  essenzialmente una pratica, è “gesto filosofico”, postura si diceva prima, cui nulla di ciò che si presenta alla coscienza intenzionale è estraneo. In questo mio intervento provo a suggerire due mosse, di questo gesto filosofico, nei riguardi del nostro tema – le infrastrutture; mosse che derivano dal tentativo di prendere sul serio in modo particolare le due piccole preposizioni – in/fra – della parola infrastruttura.

1) La prima mossa ha l’avvio da una domanda: “cosa intendiamo quando parliamo di infrastruttura”?

Potremmo provare a fare un gioco in cui ognuno dice che cosa intende per “infrastruttura”: è sempre un gioco utile per liberarsi dal preconcetto che ci siano ovvietà che non necessitano chiarificazioni, e per vedere che cosa ancora ci dice questa parola, che cosa comprendiamo e afferriamo in essa. Le parole, infatti, non sono le cose di cui parlano, ma molto di più e molto di meno: in quanto sono interpretazioni delle cose nel linguaggio in cui le cose prendono senso condiviso, le parole depositano ciò che viene dalle pratiche millenarie che hanno a che fare con le cose. Ascoltare le parole, quindi, è sempre un buon esercizio.

Se guardiamo sul dizionario si trova una definizione così: le infrastrutture sono un “insieme di impianti e beni materiali al servizio della collettività che non necessariamente producono direttamente reddito, ma costituiscono la base per lo sviluppo economico e sociale di un paese e contemporaneamente l’insieme di attività che contribuiscono allo sviluppo di un paese mediante l’accrescimento delle sue conoscenze ” (T. De Mauro, Grande Dizionario Italiano dell’Uso, Utet, 1999-2007). Notiamo qui, di passaggio, che “sviluppo” è il termine attorno a cui ruota questa definizione.

Se andiamo a vedere, invece, il termine “struttura”, troviamo che esso si riferisce al complesso degli elementi costitutivi di un organismo, di una costruzione o di un sistema, considerati nei loro rapporti e nella reciproca interdipendenza. È così che si parla di struttura intendendo un’intelaiatura, elementi che hanno una funzione di sostegno; ed in economia se ne parla riferendosi, per estensione, all’insieme dei rapporti di base di un sistema economico.

Possiamo dire allora che, in base a queste definizioni, se quando si dice struttura si intende “ciò grazie a cui qualcosa sta in piedi, che è il suo ordine e la sua stabilità”, quando si dice infrastruttura il riferimento è, invece, subito a ciò che tiene in piedi qualcosa “perchè ne sia possibile lo sviluppo”. Questa è la precomprensione in cui ci viene incontro la questione, in cui ci muoviamo: è la koinè che investe le nostre pratiche ancora prima che la nostra riflessione. Qualcuno dirà che “è la realtà”. Bene, ciò che è importante, quando si vuole essere realisti, è che ci sia la consapevolezza di uno scarto tra “ciò che” si dà a comprendere e la comprensione: scarto che è gesto fecondo riconoscere e interrogare; scarto per cui è infinita l’interpretazione di ciò che si deve comprendere. Ogni sguardo, infatti, mentre rende possibile intendere, dal proprio angolo visuale anche nasconde. Si tratta, per proseguire a comprendere, di interrogare questo sguardo per accorgersi se forse c’è qualcosa che va perduto. Qualcosa che potrebbe non esser bene lasciar perdere. Ecco, a me sembra proprio che vada perduto l’in/fra. O almeno resta impensato, e allora comunque perduto alla consapevolezza collettiva, o costretto in una operazione di riduzione, cioè indebolito o fatto diventare altro. Il che porta allo stesso risultato.

Provo a spiegarmi facendo riferimento al testo di G. Simmel, Ponte e porta, dove egli osserva che «i primi uomini che segnarono la strada tra due luoghi, portarono a termine una delle più grandi imprese dell’umanità: essi potevano andare e venire da entrambi i luoghi, avendoli collegati per così dire in modo soggettivo. Sarebbe stato loro necessario, però, incidere visibilmente sulla terra il percorso affinché i due luoghi fossero collegati anche oggettivamente: in questo modo la volontà di connessione diviene configurazione delle cose, che si offrono ogni volta di nuovo a tale volontà, senza che questa dipenda dalla frequenza o scarsità dei nuovi percorsi. Quella di costruire un camminamento è una prestazione specificamente umana; anche gli animali superano di continuo le distanze e spesso lo fanno in modo più abile e articolato, tuttavia per essi non c’è un collegamento tra la fine e l’inizio di un percorso, essi non operano mai il miracolo del cammino: far coagulare il movimento in una struttura stabile, che inizia e finisce in esso. È con la costruzione del ponte che questa capacità raggiunge il suo punto più elevato. Qui sembrano opporsi alla volontà umana di connessione, non solo la resistenza passiva dello spazio esteriore, ma anche la resistenza attiva di una particolare configurazione fisica. Superando questi ostacoli, il ponte rappresenta l’estensione della sfera della nostra volontà allo spazio. Per noi esseri umani, e soltanto per noi, le sponde del fiume non sono semplicemente esterne, ma sono anche “separate”; e questo concetto di separazione non avrebbe alcun significato se non le avessimo prima collegate nei nostri pensieri finalizzati, nei nostri bisogni e nella nostra fantasia. In tale occorrenza la forma naturale sembra volere sposare questo concetto con intenzione positiva, e la separazione, che sembra sussistere solo tra gli elementi presi in sé e per sé, viene superata dallo spirito con la sua attività di unificazione e conciliazione» (p. 28).

Riprendo alcuni dei suggerimenti di questo denso testo:

a) c’è qualcosa, e questo qualcosa è colto come “separato” nel mondo;

b) è colto come “separato” perchè lo abbiamo già collegato nei nostri schemi di pensiero;

c) provvediamo allora al ponte, che stabilisce un collegamento di ciò che nel mondo è separato, ed è l’espressione nello spazio dell’intenzione umana di collegare (“l’estensione della sfera della nostra volontà allo spazio”);

d) il ponte rende il collegamento immediatamente visibile e visibilmente duraturo;

e) costruire il ponte è comporre in unità le cose del mondo dentro al mondo, positivamente e non solo in immaginazione o come può farlo l’arte.

Provo allora a riformulare questi suggerimenti preziosi che la pagina simmelliana ci ha offerto attraverso l’esempio concreto del ponte. Gli esseri umani vengono al mondo, sono al mondo, e con le cose del mondo hanno a che fare. Per essi esistere è sforzo incessante di orientamento e di familiarizzazione con le cose, e questo implica il rapporto con lo spazio. Abitando il mondo, gli esseri umani cercano cioè di dare unità al mondo, e lo riguardano e trasformano secondo prospettive di senso che corrispondono al modo di intendere bisogni, desideri, fini.

Questo cercare di dare unità al mondo implica un rapporto con lo spazio, perchè l’essere al mondo, si può allora aggiungere, per il tramite della corporeità, allo spazio inerisce originariamente. Gli esseri umani cioè sono nello spazio diversamente da come vi sono le cose: per questo di essi si può dire piuttosto che sono “abitanti, di passaggio”. La relazione con lo spazio è allora costitutiva in tutte le pratiche, così come tutte le pratiche la coinvolgono. Come si può vedere, diversamente, nelle diverse epoche, si configurano le pratiche degli esseri umani. Penso che si possa dire che, nella nostra epoca, esse sono in generale caratterizzate da spazio/comunicazione/velocità. Queste sono le variabili in che danno l’impronta al nostro presente.

2) Spazio/comunicazione/velocità sono quindi anche le variabili di quella pratica che è l’infrastrutturare. Diciamo quindi di una rilevanza della spazialità.

La grande ossessione che aveva assillato il XIX secolo è stata, come osserva Foucault, la storia (e quindi i temi erano quelli dello sviluppo o del blocco dello stesso, della crisi e del ciclo, dell’accumulazione del passato): per cui è nel secondo principio della termodinamica che il XIX secolo ha trovato gli elementi essenziali delle proprie risorse mitologiche (attraverso il secondo principio della termodinamica si mette in luce il fatto che numerosi fenomeni naturali avvengono in un verso ben preciso e che, di conseguenza, risultano intrinsecamente irreversibili, cioè non è possibile realizzare una combinazione di fenomeni che ripristini esattamente lo stato iniziale). Quella attuale (osserva sempre Foucault) può invece essere considerata l’epoca dello spazio. Viviamo nell’epoca del simultaneo, nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso. Viviamo in un momento in cui il mondo si sperimenta più che come un grande percorso che si sviluppa nel tempo, come un reticolo che incrocia dei punti e che intreccia la sua matassa (M. Foucault, Spazi altri, in Eterotopie, Mimesis, Milano 2008, p. 19). Foucault opportunamente definisce questa spazialità che prende il centro della scena come una spazialità di dislocazioni. Se lo spazio medioevale era un insieme gerarchizzato di luoghi (lo si può dire “lo spazio della localizzazione”),  a partire da Galilei, nel XVII secolo, si ha la costituzione di uno spazio infinito e infinitamente aperto; il luogo di una cosa ora non è altro che un punto del suo movimento. È “lo spazio dell’estensione”: attualmente la dislocazione si sostituisce all’estensione che a sua volta sostituiva la localizzazione; la dislocazione è definita dalle relazioni di prossimità tra punti o elementi, cioè «quali relazioni di prossimità, che tipo di stoccaggio, di circolazione, di approvvigionamento, di classificazione degli elementi umani, deve essere considerato primariamente in questa o quella situazione per conseguire un certo fine».

La spazialità che si impone non è di luoghi – realtà dense, spesse, stratificate – ma è una spazialità di punti dello spazio, e un punto è quello che è per il posto che occupa nella rete delle relazioni funzionali. Questo “in” di “nella” rete può allora anche non significare più l’“in” che dice la relazione di luogo, ma solo l’“in” della relazione parte/tutto, come quando si dice che il dito è nella mano. Ma senza la relazione di luogo il “fra” della connessione non connette più luoghi, o realtà allocate: resta solo un “fra” che dice velocità e comunicazione, senza direzione, quindi “senza senso”; un “fra” che, perciò, può essere investito di qualsiasi senso, che può essere dislocato in qualsiasi direzione di marcia.

Le pratiche con cui si mette mano al mondo, e in questo anche alla trasformazione dello spazio, non hanno come criterio, allora, che questa mancanza di vincoli, questo poter agire e decidere senza dover tener conto che della capacità e possibilità di incrementare velocità e comunicazione. È questo il rischio della hybris. Nelle parole di Aristotele (Retorica II, 2 1378b) la hybris è un oltraggiare, è la violazione del limite, è l’atteggiamento di dismisura. È il richio di hybris di un finito che misconoscendo l’esistenza di vincoli misconosce la propria finitezza. Per questo sono tanto importanti le due preposizioni: in/fra. Dicono, allora, che “ciò che dà ordine e tiene in piedi qualcosa” ha da essere pensato non solo in una relazione parte/tutto, ma anche in una relazione di luogo con ciò che tiene in piedi. Tener conto dell’”in” significa pensare a fondo, allora, la relazione di luogo. Lasciarla impensata non è un atteggiamento neutrale. Quelle preposizioni dicono anche che decisiva, per la costruzione dell’unità e dell’ordine di ciò che sta in piedi, è la comunicazione allocata, che tiene insieme gli elementi in ciò che essi costituiscono.  La relazione di luogo e la relazione comunicativa si mostrano allora, in questa prospettiva, come vincoli per quello sviluppo di cui diceva la definizione di infrastruttura citata all’inizio. Si tratta di non de-lirare, e non de-lira che riconoscere che si dà un confine, un limite. È un’altra prospettiva rispetto allo sforzo esasperato di prescindere dal vincolo, di liberarsene, che mi sembra il modello di sviluppo in cui si muove invece la nostra epoca.

Questo ha risvolti anche nel modo della convivenza dello stare al mondo. Perchè lo spazio è fondamentale in ogni forma di vita comunitaria; e lo spazio è fondamentale in ogni esercizio del potere. Ha risvolti anche per il gesto architettonico, che in tutto questo non è neutrale: l’architettura è elemento di sostegno di una certa configurazione dello spazio, che assicura una certa distribuzione delle persone nello spazio, una canalizzazione della loro circolazione, come anche la codificazione dei rapporti che essi intrattengono tra di loro; essa è inscritta in un campo di rapporti sociali, nel cui seno introduce un certo numero di effetti specifici.

Provo a tradurre il mio discorso, allora, in linee di pratiche possibili.

a) Sottolineare l’in/fra, che implica il ritorno dei luoghi nel progetto:

  • significa la pazienza di comprendere cosa precede e condiziona la costruzione dello scenario strategico in cui le infrastrutture si collocano;
  • implica una riflessione su chi decide;
  • implica anche una discussione sui fini praticabili ed eligibili, cioè un esercizio di comprensione e condivisione di cosa significhi, e per chi, quel riferimento allo “sviluppo” che si era spacciato come ovvio.

Ancora più concretamente.

b) Anziché cercare di prescindere dai vincoli, elaborarli si configura come il modo in cui un sistema territoriale produce benessere in forme durevoli, consentendo la riproduzione e la valorizzazione allargata e condivisa delle proprie risorse patrimoniali (ambientali, territoriali, umane), con una modesta impronta ecologica, con scambi solidali e non di sfruttamento.

 

Riferimenti

M. Foucault, Spazi altri, in Eterotopia, Mimesis, Milano 2008.

J.E. Malpas, Place and Experience. A Philosophical Topography, Cambridge Univesity Press, Cambridge 1999.

A. Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino 2011.

D. Massey-P. Jess (eds.), A Place in the World? Places, Culture and Globalisation, Oxford, Oxford University Press, 1995, trad. it. Luoghi, culture globalizzazione, Utet, Torino 2001.

G. Simmel, Ponte e porta, Archetipo Libri, Bologna 2011.

 

 

Profilo dell’autore

Carla Danani è docente di Filosofia Politica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata e di Filosofia dell’Abitare presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Fa parte della redazione della rivista “Filosofia e Teologia” e del comitato di redazione della collana “Research in Contemporary Religion” della casa editrice Vandenhoeck & Ruprecht. Si è occupata di ermeneutica ed ha scritto saggi di filosofia morale e politica. In particolare, oggi i suoi studi sono indirizzati ad approfondire le questioni della convivenza, nel loro rimando alla dimensione dello spazio-territorio e alla ricerca di percorsi di costruzione condivisa delle scelte. Tra le sue pubblicazioni: Nuovi ruoli delle municipalità nel governo partecipato del territorio, in Il territorio non è un asino. Voci di attori deboli (Franco Angeli, Milano 2006), Città e cittadinanza, in Forme del bene condiviso (Il Mulino, Bologna 2007), Per un “locale” buono pulito giusto: questioni aperte, in “Etica ed economia” (n. 2, 2007), Oltre la cittadinanza: abitare la Terra, in “Rivista di Studi Utopici” (n. 6, 2008).

 

 

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