Blog EllePì – Il logoramento della produttività

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Serve una diversa interpretazione dello sviluppo: dalla massimizzazione dell’utilità individuale alla valorizzazione delle persone

di Pietro Spirito

La crisi logora non solo l’andamento della produzione industriale, ma anche le parole che interpretano i fenomeni. Questo accade soprattutto quando la crisi stessa non è espressione di un aggiustamento congiunturale. Quando si determina una frattura profonda nella struttura dei modelli produttivi e sociali, si corre il rischio che le chiavi interpretative utilizzate nel passato per  spiegare l’evoluzione dei processi non risultino assolutamente adeguate ad intercettare una dinamica profondamente differente. Accade così anche al concetto di produttività. Gli economisti, nel tempo, si sono abituati a misurare questo indicatore correlandolo all’andamento di due fattori considerati primari per spiegarne l’andamento: il lavoro ed il capitale.

Nell’economia industriale del secondo dopoguerra, come aveva dimostrato Robert Solow nel 1957, questo modello esplicativo era adeguato a far comprendere la genesi dello sviluppo, anche se restava un “residuo”, vale a dire un insieme di altri fattori convergenti, che, unito all’apporto di capitale e lavoro, dava luogo alla produttività totale dei fattori. Il peso di questo “residuo”, nel corso del tempo, ha progressivamente aumentato la sua rilevanza, tanto è vero che sono fiorite analisi di altri economisti che sono andati alla ricerca di questi fattori aggiuntivi che costituivano elementi alla base della spiegazione del residuo: la qualità del capitale umano e l’istruzione, l’imprenditorialità, la salute, le esternalità, le diseguaglianze, la motivazione. La ricerca degli economisti è andata in direzione di una analisi monografica sulla singola componente di “residuo” che avrebbe consentito di spiegare meglio le dinamiche della crescita. Non è stato però ancora messo in discussione il principio in base al quale la produttività totale dei fattori resta un “residuo”, rispetto al peso dominante dei due fattori del capitale e del lavoro, quali pilastri determinanti per definire le traiettorie di sviluppo di una economia. Ancora oggi, quando parliamo di produttività, inevitabilmente ci riferiamo ancora alla produttività del lavoro e del capitale, con un riflesso condizionato che deriva dall’aver incorporato modelli tradizionali di interpretazione dei fenomeni, che andavano bene nei passati decenni, e che potrebbero essere oggi meno adeguati a farci comprendere la realtà. Nello stesso dibattito di politica economica che affronta la crisi dell’economia italiana, al centro della scena resta in particolare il tema della produttività del lavoro: ovviamente la questione conserva tutta la sua rilevanza, ma è da dimostrare che costituisca il deficit competitivo maggiore che è necessario superare per rilanciare lo sviluppo nel nostro Paese. Pare giunta l’ora di avviare una riflessione sul significato, sulle articolazioni e sui fattori determinanti del concetto di produttività totale dei fattori nell’economia contemporanea. In un libro che uscirà in autunno per i tipi di FrancoAngeli (“La costruzione del capitale fiduciario”, nella collana della Fondazione Lavoroperlapersona), assieme a Gaetano Fausto Esposito, analizzeremo proprio tale snodo, partendo dal presupposto che, per andare in una direzione diversa, occorre innanzitutto superare l’approccio mainstream degli economisti, che hanno messo al centro della analisi, nella definizione  dei meccanismi delle dinamiche sociali, esclusivamente l’interesse individuale e la massimizzazione della utilità dei singoli.

Questo approccio ha spazzato via dalla analisi dei comportamenti il sistema dei valori che sono a presupposto dell’azione individuale e collettiva. Noi cercheremo invece, nel nostro tentativo, di dare vita e forma ad un modello che parte dallo stock di capitale fiduciario che ereditiamo dal nostro passato, e, attraverso un processo di trasformazione che coinvolge la motivazione, la giustizia distributiva, il capitale umano e  le esternalità, giunge a dare valore alla spinta imprenditoriale che è alla base della formazione dello sviluppo. Dimostriamo, al termine del nostro percorso espositivo sul funzionamento del modello di generazione (o di distruzione) del capitale fiduciario che il tasso di natalità netta delle imprese, unito alla qualità del capitale umano ed all’indice di connettività, spiega in modo adeguatamente sufficiente le dinamiche della produttività totale dei fattori nel nostro Paese.

Insomma, con questo nostro lavoro, cerchiamo di aprire una discussione sui meccanismi generativi della crescita, uscendo dagli stilemi tradizionali che hanno caratterizzato l’interpretazione economica nel corso degli ultimi decenni. Siamo ancora oggi prigionieri di un approccio che sta dimostrando di non essere in grado di intercettare i percorsi necessari di cambiamento. Le soluzioni di stampo tradizionale (il cosiddetto “Washington consensus”), basate su una restrizione dei diritti dei lavori, su politiche che privilegiano la diseguaglianza mascherandola da riconoscimento al merito, e su un approccio recessivo delle politiche di finanza pubblica, hanno mostrato di essere del tutto inadeguate ad assicurare l’uscita dalla crisi: l’hanno anzi esasperata. D’altro canto, le tradizionali ricette keynesiane della spesa pubblica come meccanismo stabilizzatore possono dare un respiro di corto raggio, perché non generano poi fattori di strutturale crescita della capacità di produrre ricchezza. Oggi tocca invece investire, a nostro avviso, sulla ricostruzione del capitale fiduciario che è stato dilapidato nei decenni trascorsi, caratterizzati da un individualismo estremistico, puntando:

  • sulla motivazione degli individui e delle organizzazioni;
  • sulla dotazione di capitale umano adeguato ad affrontare la società dei nostri tempi con la necessaria adeguatezza di competenze per evitare quello che viene definito il “digital divide”;
  • su una giustizia distributiva maggiormente equa;
  • sui meccanismi di connettività che migliorino la trasmissione delle merci e delle informazioni;
  • sulla liberazione di energie imprenditoriali realmente innovatrici, capaci di investire nella produzione di una economia sostenibile ed orientata al futuro.

Insomma, tocca dare alle parole un significato nuovo, adatto a contestualizzarle rispetto a mutamenti di scenario di dimensioni davvero imponenti. Anche alla produttività totale dei fattori tocca un percorso  di adattamento coerente con la sfida che i tempi odierni richiedono.

Forse, scopriremo che, a deprimere la produttività dell’economia italiana, sono forse, più che la dinamica della produttività del lavoro, l’evasione fiscale, l’economia criminale e la corruzione, che hanno costituito fattori profondi di logoramento del capitale fiduciario che sta alla base del processo di sviluppo economico. E forse capiremo anche che sono necessarie politiche economiche improntate essenzialmente verso la generazione di spirito imprenditoriale e di innovazione. Allora, avremo imboccato il sentiero stretto per uscire dalla crisi.

 

Riferimenti

Kaushik Basu (2013), “Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta”, Laterza, Roma-Bari.

Zygmunt Bauman (2013), “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti. Falso!”, Laterza, Roma-Bari.

Michael J. Sandel (2013), “Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato”, Feltrinelli, Milano.

Robert M. Solow (1957), “Technical change and the aggregate production function”, The Review of Economics and Statistics, n. 3.

Joseph E. Stiglitz (2012), “The price of inequality”, W.W.Norton & Company, New York City.

 

Profilo dell’autore

Pietro Spirito è oggi dirigente di Atac. E’ stato precedentemente Direttore Generale dell’Interporto di Bologna, Direttore Generale della Fondazione Telethon, dirigente del Gruppo Ferrovie dello Stato, ricoprendo diversi incarichi nel sistema ferroviario nazionale durante la fase di trasformazione da ente pubblico a società per azioni, sino al 2007. Ha iniziato la sua attività lavorativa presso l’ufficio studi della Montedison, per poi avere altre esperienze presso Unioncamere, Ministero dell’industria e Consob. E’ docente incaricato di Economia dei trasporti presso la Facoltà di Economia e commercio dell’Università di Tor Vergata.

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