Blog EllePì – Figure di leadership. Dalla mediazione della verticalità alla responsabilità della prossimità

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Di Gabriele Gabrielli, presidente della Fondazione Lavoroperlapersona

La trappola dei mediatori

Siamo tutti molto bravi a costruire un fortino a presidio del “mio”, di ciò che ci torna comodo. Questo fortino ha mura solide e pilastri in cemento armato. E’ frutto d’ingegno e arte, quella del tornaconto. Si presenta con molti volti e ha del paradossale. Come può fiorire così rigogliosa, infatti, proprio nell’epoca dell’interconnessione e dell’interdipendenza? Se viviamo sempre connessi, quindi insieme a altri (almeno così pare), come mai la “rete” non produce anche quel senso di comunità che predilige il “nostro”? In verità, stiamo facendo di tutto per evitare il “faccia a faccia” con l’Altro, ci adoperiamo nel costruire strumenti che ci consentano di non guardarci negli occhi.Anziché fidarci dell’Altro, riponiamo fiducia nella tecnica, nel mercato, nei contratti. Costruiamo artefatti per limitare il contatto con le persone. Se è proprio inevitabile, per gestire le nostre relazioni chiediamo assistenza aun mediatore, qualcuno che ci tolga un po’ dall’imbarazzo che proviamo. L’economista Luigino Bruni individua alcuni di questi mediatori nello Stato, nel Mercato e nelle sue manifestazioni, nei Contratti e nella Gerarchia. Anche la Rete è un mediatore che ci solleva dal guardare in faccia gli altri che ci infastidiscono e preoccupano. Nelle relazioni, infatti, si corrono tanti rischi. Dall’incontro possono nascere “ferite”, non solo sviluppo e riconoscimento. E’ questa sfiducia che ci fa tenere stretto il nostro posto e costruire il nostro fortino preservandolo dalle relazioni che minacciano. Per questo le affidiamo a una qualche “verticalità” cui ci appelliamo per scrollarci di dosso la fatica dell’Altro. Può sembrare diversamente, ma c’è scarsa “orizzontalità” nell’epoca mediata che viviamo. Le occasioni di confronto e discussione, quelle in cui siamo esposti agli occhi dell’Altro, non sono così numerose. Meglio mandare un messaggio, un Whatsapp. E’ meno faticoso, più rapido, ci fa esporre di meno. Beninteso, non che le relazioni mediate non abbiano un senso e una loro utilità, ma rimangono pur sempre relazioni deboli non potendo diventare la modalità primaria per vivere la nostra umanità fatta di socialità, riconoscimento e reciprocità.

A chi guardare?

Come uscire da questa trappola della mediazione? Sì, perché anche quando lavoriamo in gruppo siamo fortemente “mediati” da regole, da qualche meccanismo impersonale che ci sottrae alla fatica della relazione. Come ritornare a tessere legami e relazioni che, soli, possono offrirci l’orizzonte del vivere in una comunità? A chi guardare per ricevere indicazioni, chi seguire? Forse è proprio da qui che dobbiamo ripartire, dal modello di leadership che abbiamo. E’ largamente diffusa l’idea che la leadership inizi e si esaurisca nella storia delle grandi personalità, rappresentata da figure che disegnano verticalità,uno stare sopra, più in alto, in una posizione che obbliga gli altri a guardare in sù, non accettando la postura più naturale dell’incontro che è sempre alla pari. In questa prospettiva la leadership è misurata, anche nella “rete”, dal numero di follower che si hanno, una dimensione decisiva per comprendere e valorizzare, anche in termini di mercato, l’influenza che una persona esercita sul processo decisionale di altri o sul loro comportamento. La leadership dunque ha anche un valore economico – oltre che politico, culturale e sociale – e può essere “mercificata”, ossia venduta e comprata. Ci sono altre idee però sulla leadership e sul suo significato, sulle circostanze in cui si può esprimere e sui soggetti capaci di esercitarla. Siamo proprio certi che non ci siano figure diverse che possano rappresentarla se non quelle cui ci siamo abituati disegnando supremazie e lotta per scalzarle? La guida in verità non sta solo in alto; perché ogni persona può esercitare (ed esercita) un ruolo d’influenza importante nel contesto in cui vive, nelle relazioni che alimenta e nei ruoli sociali, formali e informali, che ricopre. Abbiamo numerosissime occasioni, tutti i giorni, per cogliere e vivere le occasioni di leadership che ci sono date, nella società come nel lavoro, per consentire e accettare l’influenza di chi ci è vicino. Non importa quale posizione ricopriamo. E’ come se ciascuno di noi fosse un po’ responsabile anche della leadership del prossimo, non soltanto della propria e non soltanto nelle organizzazioni. Vista da questa prospettiva si tratta di una grande responsabilità. Anche molto esigente, perché non si accontenta di farsi guidare da qualcuno più in alto e non ci consente di scegliere scorciatoie. Quando non aiutiamo le persone a diventare consapevoli del valore che hanno, perché non accordiamo loro fiducia, è come se stessimo imprigionando la leadership dell’altro nascondendo il patrimonio che rappresentano per l’impresa e per la società. Non è giusto pensare che sia solo responsabilità dei capi (che hanno una autorità di gestione che deriva loro dal potere assegnato dall’organizzazione), ciascuno di noi può far fiorire il collega, l’amico, le persone che incontra.

Quante volte avrò preso piuttosto che dato?

Quando non riconosciamo il valore di chi ci è vicino è un po’ come se stessimo bruciando il suo potenziale. Questo succede a ogni livello, nella società, con gli amici, in famiglia, a scuola, nelle aziende e nel lavoro. Riflettendo sulle figure della leadership viene da domandarsi: quante volte sarò stato il “ladro” della speranza di colleghi e collaboratori, famigliari e amici? In quante occasioni avrò esercitato la mia leadership negando quella degli altrimettendole il bavaglio? Quante volte l’esercizio della mia leadership avrà “preso” piuttosto che “dato”? Quante volte avrò abusato della mia posizione “in alto”, quella che costringe chi ti guarda a forzare il collo in una posizione non naturale, mettendo in silenzio chi collaborava con me? Quante volte avrò sprecato occasioni organizzative per tessere l’incontro che, solo, produce beni relazionali?

La leadership di prossimità

Le figure che disegnano la leadership, allora, possono essere diverse da quelle cui siamo abituati a guardare. Ricorro all’aiuto di due dipinti per esprimere meglio il senso di questa riflessione. Il primo è La Primavera di Sandro Botticelli, il secondo La danza di Henry Matisse. Nell’opera di Botticelli osserviamo un movimento circolare, quello de Le Grazie, le Càriti greche che hanno ispirato tantissimi pittori, scultori, scrittori e poeti. Sono state fornite molte interpretazioni di questo quadro. E’ stato sottolineato anche il senso della circolarità del dono, espressa dai movimenti dell’offrire, dell’accettare, del restituire. Chi è la leader tra le tre Grazie? E’ impossibile stabilirlo secondo gli schemi cui siamo abituati, il quadro propone una prospettiva orizzontale che non offre nessuno strumento di mediazione alla dinamica dell’incontro e dello stare insieme. La prospettiva viene rovesciata perché ciascuna Grazia sembra responsabile verso le altre, verso chi è vicino. La leadership di prossimità è capace così di generare ed esaltare l’unicità del contributo di ciascuna che non può essere lasciato ai margini, perché salterebbe tutto. In questa figura, tutto sembra essere comodo, alla portata. Non sono richieste posture innaturali. Non c’è inizio, non c’è fine e non s’intravvedono vie di fuga da questa responsabilità che genera relazioni, reciprocità, dono e sostegno. E’ una leadership che include e crea benessere. Non diversamente da quello che osserviamo nel dipinto di Matisse facendo un salto di oltre quattrocento anni. Qui troviamo cinque persone unite in un girotondo, una sorta di giostra della vita che esalta la tensione all’unione con gli altri. Anche in questo caso c’è un movimento circolare, anche qui senza inizio e senza fine, una danza che sembra esprimere la fioritura della vita come benessere insieme, non in una dimensione solitaria.

Da queste figure possiamo trarre numerosi spunti per condurre una vita organizzativa più degna e rispettosa della umanità. Ne possono trarre beneficio sia quanti ricoprono ruoli formali di guida, sia quanti non si trovano in questa situazione. Tutti, infatti, condividiamo la responsabilità di poter consentire al collega che ci è vicino – in diversa misura e tonalità – di esprimere la sua leadership, riconoscendo e ascoltando il suo potenziale, fruendo dei talenti che possiede. Non è solo responsabilità dei capi rendere possibile questo, non abbiamo bisogno della mediazione della “gerarchia”, almeno non necessariamente. La leadership di prossimità ha a che fare con l’idea che spetta a ciascuno di noi farsi carico di migliorare l’ambiente dove lavoriamo.Vale anche per il quartiere dove viviamo e la città dove abitiamo.

 

 

Suggerimenti bibliografici

Bruni L., L’ ethos del mercato. Un’introduzione ai fondamenti antropologici e relazionali dell’economia, Mondadori Bruno, Milano 2010

Becchetti L., Wikieconomia. Manifesto dell’economia civile, Il Mulino, Bologna 2014

Gabrielli G., Leadership sottosopra. Come orientarsi quando tutto si muove?, FrancoAngeli, Milano 2016

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